Padri separati: tra accuse Instagram e Mammuccari sulle Iene

Di Rita Lazzaro

“La mia famiglia! Manca la mia piccola che ora vado a prendere”; così Federico Fashion Style aveva scritto su Instagram fotografandosi insieme ai suoi parenti poco prima di dirigersi verso l’abitazione di Letizia Porcu. Ma una volta arrivato sotto casa dell’ex ha poi condiviso un altro scatto con i suoi follower: “Che brutta storia! Spero che nessuno di voi possa passare ciò che sto passando io”. Purtroppo non si tratta dello sfogo di un padre separato, ma dell’ennesimo episodio dello scontro, che da tempo si sta consumando tra lui e l’ex moglie. Infatti in una nuova foto condivisa su Instagram Federico Fashion Style si è mostrato davanti alla stazione dei carabinieri di Anzio e poco dopo ha scritto un sibillino messaggio: “Io non mollo. Nessuno può allontanarmi da te, tu sei la mia vita, il mio respiro, la mia gioia, la mia forza, il mio presente, il mio futuro! A te che mi guardi, cerca di avere un cuore e pensa che tutto il male che fai non lo fai a me ma a una piccola anima innocente”.

A spiegare cosa è successo davvero tra Federico e Letizia è stata la blogger Deianira Marzano, che attraverso la sua pagina Instagram ha raccontato: “Federico aveva preso accordi con l’ex moglie che avrebbe preso la piccola per la Befana ad Anzio ma lei invece era andata a Roma e a casa non c’era nessuno (senza avvisare)”. Poi la Marzano ha fatto chiarezza sul perché Federico Fashion Style è andato dai carabinieri: “La moglie non ha risposto al telefono né ai messaggi. Forse lei doveva rimanere a Roma per comodità sua, ma la piccola sarebbe dovuta stare con Federico. La bimba ci sarà rimasta malissimo e lui ovviamente ha sporto denuncia. Ho visto i messaggi”. Una brutta storia che potrebbe non concludersi con la semplice segnalazione alle autorità, dell’ex moglie. Una brutta storia, e purtroppo non si tratta di un caso isolato. Infatti sempre durante il periodo natalizio sui social girava lo sfogo di Maurizio Battista:“Non vedo mia figlia da due settimane, la mia ex moglie non me lo concede”. Secondo quanto sostenuto dal comico, l’ex moglie non gli starebbe permettendo di vedere la figlia regolarmente: “Ennesimo video di reclamo, di ribellione. Li farò ad oltranza. La bambina sono quindici giorni che non la vedo per vari motivi”. Maurizio Battista poi, ha spiegato i presunti motivi per i quali non riuscirebbe a trascorrere del tempo con sua figlia. Secondo la sua versione, la sua ex moglie Alessandra Moretti avrebbe preferito evitare di lasciarle incontrare la bambina durante il Natale perché la piccola ha la febbre: “Un po’ è stata male, un po’ è andata a scuola e poi per qualche giorno ho lavorato pure io. Il 22 e il 24 non mi è stata data. Siamo arrivati a questi giorni, in cui ha un po’ di febbre; il 3 la portiamo a fare la visita da un altro pediatra”. Battista avrebbe voluto trascorrere Capodanno con sua figlia. Secondo quanto da lui sostenuto, l’artista avrebbe chiesto di poter trascorrere almeno la notte di Capodanno insieme alla bambina, ma anche in questo caso non avrebbe incontrato un riscontro favorevole da parte della mamma della piccola. Arriviamo al 31, ho mandato un messaggio chiedendo, espone Battista: “Va bene se la bambina il 31 dicembre e l’1 gennaio sta con me, visto che durante le feste di Natale non c’è stata per niente?” La signora ha detto: “Vediamo, poi magari il 31 viene a teatro, si stanca, mi chiama e bisogna venire a prenderla”. Chi ti ha detto che si stanca? È una bambina di sei anni, non è una neonata. Qual è il problema? Mi ha detto che casomai la prendo l’uno. “Casomai” è un mezzo condizionale, sempre che non le venga la febbre o altre fisse che hai tu”. Battista ha concluso auspicandosi di poter vedere regolarmente sua figlia come, a suo dire, sarebbe stato stabilito inizialmente: “La bambina va tenuta una settimana io e una settimana tu, qual è la mia settimana? Magari una settimana è troppo per la bambina, ma almeno due giorni la devo tenere questa bambina o no? Neanche due giorni. […] Io devo chiedere l’elemosina per vedere due giorni mia figlia? Ogni telefonata è un problema. […] Devi concedermi di vedere mia figlia, per lei sono pronto a fare le guerre civili”.

Quanto sta vivendo Maurizio Battista purtroppo non è un caso isolato. Infatti in Italia la condizione in cui versano i papà separati non è certo tra le migliori. A tal proposito il famigerato comico e conduttore delle Iene Teo Mammuccari, ha recentemente sfogato in diretta il proprio rammarico per la situazione che lo ha coinvolto con la figlia oggi adolescente, relativamente le beghe tra lui e la radiosa ex compagna velina brasiliana Thais Souza Wiggers: il Teo nazionale ha confessato di non aver visto la figlia per un triennio a causa della sua permanenza in Brasile con la madre. Non tutti i padri hanno le possibilita’ del personaggio televisivo per cui, rimarcando cio’, Mammuccari ha esortato l’uditorio che episodi di ostracismo genitoriale come il suo, non accadano ad altri. Alla fine il conduttore Mediaset ha riversato sulla madre della figlia, inusitati complimenti per essersi resa conto che non vedere il padre potrebbe essere esiziale per sua figlia; dunque la situazione e’ stata sbloccata e Mammuccari puo’ esercitare per bene le proprie funzioni di padre: tale punto e’ risaltato da una foto Instagram che ritraeva la famiglia al completo presso un ristorante, con un sorriso fulgido sulle labbra. A tal proposito Teo Mammuccari ha asserito che non tutte le donne posseggono la sensibilita’ e l’empatia della madre di sua figlia per comprendere che la tutela dei figli passa per un rapporto paritario e continuativo insieme ad ambi due i genitori.

Basti pensare che nel 2016 In Italia, secondo i dati dell’Eurispes, su 4 milioni di papà separati circa 800 mila versavano sotto la soglia di povertà, mentre un milione e mezzo viveva in condizione di indigenza, per corroborare il messaggio fi Mammuccari.

Un’altra piaga che colpisce i papà separati sono le false accuse. Infatti secondo la letteratura recente, tra l’85 e il 90% dei casi sono le madri ad avanzare un’accusa nei confronti dell’ex marito: accusa che in 2 casi su 10 circa si rivela falsa (falso positivo). Le accuse più frequenti sono anche le peggiori ed in parallelo particolarmente lunghe nel decorso giudiziario; e pericolose le conseguenze psicologiche nel contesto familiare.

Il Giornale nel 2019 denunciava che “a fronte di 55mila denunce presentate da donne contro gli uomini, le condanne effettive sono state poco più di 5mila. Idem per i reati di stalking: nel 2016 su 15.700 casi denunciati, solo la metà sono finiti a processo e solo 1.600 persone sono state effettivamente condannate”.

Da ricordare altresi lo stato di profonda indigenza in cui versano i papà separati. Infatti secondo i dati diffusi dalla Caritas, 1 povero su 2 è costituito da un padre separato che non è collocatario. Ciò vuol dire che i suoi figli, in seguito all’avvenuta separazione, vivono con la mamma. I papà separati oppure divorziati nel nostro Paese sono ben 4 milioni, fra loro circa 800.000 vivono poco al di sopra della soglia di povertà. Il 66% non riesce per questo a sostenere più le spese riguardanti le prime necessità.

La causa principale dello stato di povertà in cui versano i papà separati è l’assegno di mantenimento, in quanto è spesso superiore alle capacità economiche. L’Unione Padri Separati spiega che nel 94% dei casi, l’uomo deve versare l’assegno di mantenimento; solo nel 30% dei casi viene concesso al papà di mantenere la casa, mentre il 70% deve sostenere le spese relative a una nuova abitazione.

Le associazioni dei padri separati sottolineano che il più delle volte gli assegni per il mantenimento sono superiori alle disponibilità economiche. Con uno stipendio di circa 1.400 euro mensili, solitamente si arriva a versare fra 400 e 700 euro. Una somma per coprire spese legate a vitto e alloggio per il papà ed alle spese fatte per i figli. False accuse, ostacoli nel vedere i figli e indigenza. Situazione drammatica che, purtroppo, sfocia anche in un gesto estremo. Non per nulla si parla di circa 200 padri separati suicidi l’anno. Un contesto che difficilmente si potrà risolvere con un bonus di 800 euro al mese, quindi a 9.600 euro l’anno per i genitori separati che versano in difficoltà economica. La legge c’è, basterebbe applicarla. Partendo da un art 315 bis cc accompagnato dall’art 156 cc. Già questo sarebbe un gran passo di civiltà.

Vocabolario

*Esortato: cercato di convincere a fare.

*Ostracismo: moto contrario.

*Inusitati: inaspettati.




Miss Italia interpreta Oriana Fallaci ma e’ polemica

Di Rita Lazzaro

“Miss Fallaci Takes America”. Miriam Leone sarà Oriana Fallaci in una serie TV. Il progetto nasce a seguito del cortometraggio A cup of coffee with Marilyn, dove l’attrice aveva già interpretato la famosa scrittrice, vincendo il Nastro d’Argento 2020 come miglior corto di fiction. Miriam Leone ha confermato il suo interesse ad interpretare nuovamente il ruolo di Oriana Fallaci anche nella serie TV. La storia sarà basata su episodi realmente accaduti, raccontati dalla stessa autrice nei suoi primi libri. Ma chi è Oriana Fallaci? Una personalità indomabile puntualmente palesata dalla sua penna mordace. Nata a Firenze il 29 giugno 1929 è stata una giornalista, scrittrice e attivista italiana. Partecipò giovanissima alla Resistenza italiana e fu la prima donna italiana ad andare al fronte in qualità di inviata speciale. Fu una grande sostenitrice della rinascita culturale ellenica e conobbe le più importanti personalità di questa, tra cui Alexandros Panagulis col quale ebbe anche una relazione. Durante gli ultimi anni di vita fecero discutere le sue dure prese di posizione contro l’Islam, in seguito agli attentati dell’11 settembre 2001 a New York, città dove viveva. Come scrittrice, con i suoi dodici libri ha venduto circa venti milioni di copie in tutto il mondo. Una figura infatti considerata divisiva dalla sinistra italiana che, appunto, giusto questa estate si è opposta alla via da dedicarle a Livorno.

Prendendo spunto dall’iniziativa svolta nella vicina Piombino, a Livorno ( Fdi sostenuto dalla Lega) hanno pensato che sarebbe stato giusto che anche il capoluogo rendesse omaggio alla scrittrice fiorentina. Ma il primo cittadino di Livorno, Luca Salvetti, esponente della sinistra, aveva già esposto il suo secco rifiuto alla proposta, considerandola puramente provocatoria: “Le emozioni su Oriana Fallaci sono della destra e chiaramente strumentali nei confronti delle forze di sinistra perché la Fallaci è un personaggio che indubbiamente divide”. Eppure, al di là dell’esempio di Piombino, anche nella vicina Cecina due anni fa è stata approvata la mozione per l’intitolazione di una strada a Oriana Fallaci. Ma perché la Fallaci è così scomoda alla sinistra? La risposta sarà data proprio dal centrosinistra, dove i consiglieri Fenzi e Lucetti hanno portato alla luce alcune posizioni di Fallaci: “Non è un voto contro di lei, non è in discussione il valore come giornalista e scrittrice. Fallaci è stata portatrice di intolleranza, come quando andò contro la moschea di Colle di Val d’Elsa o espresse posizioni anti-abortiste o omofobe”. Dure le posizioni a sinistra, con Trotta di Potere al Popolo che ha aggiunto: “A Livorno ci sono vie intitolate a personaggi controversi, questo è da rivedere, si è già toccato il fondo col largo Martiri delle Foibe e onestamente non replicherei”.

Ma quanto sono vere e fondate le motivazioni antifallaci? Oriana Fallaci era davvero anti abortista? La parola ai fatti: ” Io mi auguro che stasera ognuno di noi dimentichi che l’aborto non è un gioco politico. Che a restare incinte siamo noi donne, che a partorire siamo noi donne, che a morire partorendo o abortendo siamo noi. E che la scelta tocca dunque a noi. A noi donne. E dobbiamo essere noi donne a prenderla, di volta in volta, di caso in caso, che a voi piaccia o meno. Tanto se non vi piace, siamo lo stesso noi a decidere. Lo abbiamo fatto per millenni. Abbiamo sfidato per millenni le vostre prediche, il vostro inferno, le vostre galere. Le sfideremo ancora.” Parole che non necessitano di ulteriori spiegazioni e che, indubbiamente, smontano le accuse mosse contro una Fallaci “antiabortista”.

Oriana Fallaci era davvero omofoba? “L’omosessualità in sé non mi turba affatto. Non mi chiedo nemmeno da che cosa dipenda. Mi dà fastidio, invece, quando (come il femminismo) si trasforma in ideologia. In categoria, in partito, in lobby economico-cultural-sessuale. E grazie a ciò diventa uno strumento politico, un’arma di ricatto, un abuso Sexually Correct.” Omofobia o mera opinione espressa in uno stato in cui è riconosciuta la libertà di espressione? (N.D.R.). Domanda ovviamente retorica dal momento che la scrittrice ha semplicemente espresso la sua posizione su un’ideologia che sempre più prepotentemente vuole sostituirsi alla legge e, addirittura, alle leggi della natura . “Io quando parlano di adozioni-gay mi sento derubata del mio ventre di donna. Anche se non sono riuscita a far nascere i miei bambini mi sento usata, sfruttata, come una mucca che partorisce vitelli destinati al mattatoio. E nell’immagine di due uomini o di due donne che col neonato in mezzo recitano la commedia di Maria e Giuseppe vedo qualcosa di mostruosamente sbagliato. Qualcosa che mi offende anzi mi umilia come donna, come mamma mancata, mamma sfortunata, e come cittadina”. Parole che un femminismo dovrebbe solo fare proprie viste che sono in difesa non solo della dignità della donna ma anche del ventre materno. Eppure in base all’attuale femminismo, precisamente, transfemminismo, queste affermazioni sono da considerare omofobe. Oriana Fallaci è davvero una figura divisa per le sue dure posizioni contro l’Islam? Essa fu la giornalista che si tolse il velo durante l’intervista all’ayatollah Khomeini, capo indiscusso della rivoluzione islamica, il tutto con tanto di sdegno e con la dignità che l’ha sempre contraddistinta sia come donna che come penna. La goccia che fece traboccare il vaso, in un’intervista caratterizzata da un vero e proprio braccio di ferro tra cultura occidentale e musulmana, fu il momento in cui la giornalista ritornò sui diritti maltrattati delle donne e sul quel chador, vestito che immobilizza la donna nei suoi movimenti quotidiani. « Questo non la riguarda. I nostri costumi non la riguardano. Se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Perché la veste islamica è per le donne giovani e perbene« , riportò la Fallaci. «Poi rise. Una risata chioccia. Da vecchio. E rise Ahmed. Rise Bani Sadr. Risero a uno a uno gli astanti, sussultando contenti. E fu peggio che consegnarmi a Khalkhali perché subito i tormenti e le umiliazioni e gli insulti che mi avevano ferito in tutti quei giorni vennero a galla per aggrovigliarsi in un modo che comprendeva tutto: la birra negata, il dramma del parrucchiere, la via Crucis di Maria Vergine che cerca con Giuseppe un albergo, una stalla dove partorire, fino alla carognata del mullah che m’aveva costretta a firmare un matrimonio in scadenza. E il nodo mi strozzò in un’ira sorda, gonfia di sdegno. « Grazie signor Khomeini. Lei è molto educato, un vero gentiluomo. L’accontento su due piedi. Me lo tolgo immediatamente questo stupido cencio da Medioevo« . E con una spallata lasciai andare il chador che si afflosciò sul pavimento in una macchia oscena di nero». Una donna che si toglie il velo davanti a un uomo musulmano che la umilia davanti ad altri uomini. Un gesto che, oggi più che mai, dovrebbe essere portato su tutte le piazze d’Italia dove in questo periodo la sinistra ha manifestato a sostegno delle donne iraniane. Quelle donne che continuano a rischiare la vita e morire in modo atroce proprio perché si oppongono al velo. Eppure, ancora oggi, finisce nel dimenticatoio una figura che si è dimostrata profetica, smontando la politica in rosso che, in nome dell’integrazione, apre i porti a una cultura che non ci appartiene e mai ci apparterrà.

La Fallaci è stata una figura rivoluzionaria non solo nel mondo della letteratura e del giornalismo ma anche nelle sue vicende personali come la sua battaglia contro il tumore che la porterà alla morte il 15 settembre 2006. “Sono figlia di una società che ha sempre avuto paura di pronunciare la parola ‘cancro’, o ha sempre evitato di pronunciarla come fosse una parolaccia, o una colpa. Quando uno muore di cancro si legge ‘è morto di una malattia inguaribile’ […] Questo a me sembra profondamente ingiusto e sbagliato, perché non è vero che è una malattia inguaribile, a volte si guarisce, si sopravvive alcuni anni, a volte anche parecchi anni. Ed è ingiusto, perché ci toglie speranza”. Un rapporto che lei definisce “di guerra, tra due nemici che mirano a distruggersi – affermava – Io voglio ammazzare lui, lui vuole ammazzare me. […] Per me lui è un alieno che ha invaso il mio corpo per distruggerlo, e lo pensai anche quando lo vidi, subito dopo l’operazione […] Dissi ai medici ‘Portatemelo qui che voglio vederlo quel figlio di cane’. A prima vista sembrava una pallina di marmo, innocua, quasi graziosa, ma io lo vidi come una creatura viva, un alieno entrato dentro di me per distruggermi […] Però non è mai stato un rapporto di paura”. Un rapporto di guerra, di sfida, di inno alla speranza e quindi alla vita, nonostante versasse nella piena consapevolezza che fosse un male irreversibile. Irreversibile come la sua dignità, quella dignità che l’ha accompagnata nel suo percorso umano e professionale fino all’ultimo respiro:”Ho sempre avuto l’ossessione della dignità e pensato che la cosa più importante fosse vivere con dignità, ora so che c’è una cosa ancora più difficile, ancora più importante che aver vissuto con dignità: è morire con dignità. E questa è, questa sarà, la vera prova del fuoco”.

Un alieno, il canchero della Fallaci, che non l’ha mai alienata “dai suoi figli”, ossia i suoi libri. Infatti in un’intervista la Fallaci spiegò di essere impegnata nella traduzione inglese di Insciallah, già ritradotto in francese a causa di una “traduzione pessima”, quando le fu diagnosticata la malattia. “Mi ritrovai dinanzi a un dilemma angoscioso: abbandonare il lavoro, correre subito dal medico, che mi avrebbe detto ‘Signora si opera domani mattina’, e quindi lasciare che l’editore impaziente pubblicasse la cattiva traduzione del traduttore incapace, oppure finire il lavoro e poi fare l’operazione. Ci pensai una lunga, tormentosa notte, e poi scelsi la seconda soluzione […] Se tornassi indietro farei la stessa cosa. Io non scherzo, non faccio della poesia, quando dico che tra me e i miei libri c’ è un rapporto materno, che i miei libri sono i miei figli. Li concepisco, li partorisco, li amo, li difendo e tra la propria salute e quella di suo figlio, tra la propria vita e quella di suo figlio, quale madre non sceglie la salute di suo figlio e la vita di suo figlio? Io la penso così”. Una passione, un amore per la scrittura, che l’ha accompagnata dalla tenera età alla morte. “Quando ero bambina, a cinque o sei anni, non concepivo nemmeno,per me, un mestiere che non fosse il mestiere di scrittore. Io mi sono sempre sentita scrittore, ho sempre saputo d’essere uno scrittore, e quell’impulso è sempre stato avversato in me dal problema dei soldi, da un discorso che sentivo fare a casa: ‘Eh! Scrittore, scrittore! Lo sai quanti libri deve vendere uno scrittore per guadagnarsi da vivere? E lo sai quanto tempo ci vuole a uno scrittore per esser conosciuto e arrivare a vendere un libro?’” Per poi decidere di far riportare la scritta tanto concisa quanto esaustiva ” Oriana Fallaci, scrittore” sull’epitaffio della lapide al Cimitero degli Allori di Firenze, dove riposa accanto ai genitori. Una penna che ha sicuramente lasciato il segno nella storia del giornalismo italiano e non solo, realizzando alcuni dei reportage più memorabili nella storia del giornalismo internazionale con interviste ad alcuni dei personaggi più famosi e controversi del mondo in momenti storici davvero particolari: da Kissinger a Deng Xiapoing o Khomeini. Un giornalismo che ha reso suo, riportando le sue riflessioni più intime, modus operandi ben lontano da un giornalismo oggettivo dove il giornalista è mero portavoce della vicenda, privo di opinioni e considerazioni.




Vicepresidente giuristi per la vita su suicidio trans e leggi europee ed italiane

Di Rita Lazzaro

La sinistra continua a ergersi a paladina dei diritti Lgbtq+. C’è chi come la Schlein ha parlato di diritti Lgbtq+ che “rischiano di essere insidiati” dal nuovo esecutivo.1)Ma è davvero così o c’è dell’altro? 2) In Italia vige realmente una falla giuridica tale da far sì che disabili, donne e appartenenti alla comunità lgbtq+ non siano tutelati? A queste domande risponde l’ avv. Filippo Martini, vicepresidente dei Giuristi per la Vita intervistato da Rita Lazzaro per Adfnews http://www.adfnews.it. “Assolutamente no. Non è così. In Italia non vi sono falle nel diritto penale vigente. Il codice Rocco è in auge da circa novant’anni e non presenta crepe o segni di decadimento. E’ uno tra i migliori codici penali al mondo. Il problema italiano, non è il codice penale. Abbiamo menti pensanti, che lo hanno elaborato, come fu per la Carta Costituzionale. Nel tempo, queste menti sono state succedute da altre che non ne hanno certo raccolto i talenti e le risorse. Oggi il nostro problema sono i processi e la certezza della pena da applicare. Un soggetto discriminato, è t da pene e da un sistema di circostanze aggravanti, che copre tutte le possibili fattispecie”.

L’onorevole Zan aveva puntato il dito contro le richieste della Lega definendole “inaccettabili”. “Togliere il termine “identità di genere” voleva dire far venir meno molte tutele, ad esempio quelle delle persone trans che sono le più discriminate. Quanto aveva proposto la Lega era la trasformazione di una legge da antidiscriminatoria a discriminatoria».

Avvocato concorda con le parole dell’onorevole Zan contro le proposte della Lega?

“Decisamente, non concordo! Anzi, è paradossale che l’Onorevole Zan parli di “mediazioni politiche, ovvero sale della democrazia”, dopo di che letteralmente “bolli” come inaccettabile la proposta della Lega. In mediazione una proposta non è mai inaccettabile. Deve essere vagliata, come tutte le proposte sul tavolo. Io del pari potrei ritenere inaccettabile il concetto di “identità di genere” e chiudere così ogni negoziato, ogni possibile mediazione. Sino a prova contraria, chi mi parla di “identità di genere” pretendendone l’inserimento in un corpus normativo mentre, nel contempo, nega con massima risolutezza – quasi ferocia in certi dialoghi – l’esistenza delle teorie “gender”, non sa quello che chiede e non sa quello che vuole. Già la legge è complessa ed è un meccanismo ancor più complesso studiarla, elaborarla, approvarla. Non si legifera sulla base di presupposti incerti e indefiniti”. L’onorevole Zan teme anche che con la destra al governo l’Italia finisca come l’Ungheria e la Polonia.

“Infatti l’ Ungheria ha dato vita a una legge considerata anti-lgbt adottata che vieta o limita l’accesso a contenuti LGBT+ rivolti a minori di 18 anni. Invece in regioni e comuni polacchi sono state institute delle zone c.d. “LGBT free”. Per di più nel febbraio di quest’anno in Polonia è stata approvata la legge anti-lgbt nelle scuole.

“Una legge che vieta definitivamente di trattare tematiche Lgbtq+ nelle scuole, imponendo che tutte le attività extracurriculari gestite da organizzazioni non governative negli istituti scolastici dovranno essere approvate da un supervisore nominato dal governo. Tutto questo per bloccare “una minaccia per la moralità dei bambini” a detta del ministro Przemysław Czarnek.

Avvocato, a suo avviso, i provvedimenti adottati in Polonia e Ungheria sono realmente contro la comunità lgbtq+ e quindi da considerarsi omofobi?

“I provvedimenti polacchi e ungheresi, sono certamente duri, netti, decisi. Come duro, netto, deciso, dovrebbe essere l’intervento di un governo che voglia portare avanti un’agenda politica chiara e delineata secondo determinati standard. Il concetto di base che deve sottendere l’operato politico, è la ricerca del bene comune. Secondo le migliori intenzioni perseguite, in maniera netta, i predetti governi hanno voluto arginare e dimostrare al mondo, che si può limitare l’avanzata imperante, incondizionata e senza sconti, di una forma di ideologia globale secondo cui tutto ciò che viene proposto come “Lgbt friendly” è puro e buono a prescindere: anche nei confronti dei bambini. Tutto ormai, tutto: dallo spot televisivo in ogni fascia oraria, dalla serie su netflix o Amazon, neanche a dirlo, al programma in prima serata, il telegiornale, i fumetti, i cartoons per bambini anche in tenerissima età (5 – 6 anni) se non è dotato di una pennellata arcobaleno, non fa tendenza. Uno tsunami in tal senso.

Se lei sapesse che uno tsunami si sta abbattendo, o meglio, sta arrivando un’ondata potente di rilancio dello stesso, si sorprenderebbe di trovare, dalla sera alla mattina, un enorme muro con tanto di strutture di supporto e rafforzamento, a protezione di una bellissima baia caraibica incontaminata ? Faccia conto, che i provvedimenti di Polonia e Ungheria, sono quel muro. I bambini, sono quella baia incontaminata … Se “l’onda” anomala cala la minaccia, ben volentieri si rimuove quel muro ripristinando un panorama”.

A proposito di tutela dei diritti arcobaleno. A fine ottobre Chiara, una transgender, si è tolta la vita. Si sentiva in un “labirinto senza uscita”. Infatti la sua vita era diventata ancora più dura una volta espressa la sua identità femminile, entrando così in contatto con il mondo come donna e non più come uomo. I genitori e le sorelle non avevano accettato questo suo cambiamento, la famiglia in un primo momento infatti l’aveva rifiutata. Per di più, in strada, nel suo quartiere, veniva spesso presa in giro, se non addirittura aggredita. A scuola era ormai da tempo vittima di bullismo, tanto da farla decidere di abbandonare gli studi.

” A volte mi chiedo – così ha scritto Chiara in una lettera – cosa ci sia di sbagliato in me. In fondo sono sempre un essere umano. Io mi sento una donna, vorrei riconoscermi, vestire al femminile e non da maschio, vorrei avere più spazio, essere tranquilla e non avere paura. Mi sento in un labirinto senza uscita”. Una storia di discriminazione, disumanità e solitudine.

5)Come e quanto il ddl Zan avrebbe potuto prevenire questa tragedia?

“Non sono naturalmente in grado di fare una “prognosi ipotetica” in tal senso. Credo che nessuno, in buona fede, nemmeno il promotore del decreto sarebbe in grado di farla. Del resto sarebbe scorretto lucrare consensi da una tragedia simile. Invece sempre più spesso è divenuto costume farlo. Non lo trovo corretto e assomiglia un poco al “metodo Cappato” che dovrebbe quasi essere coniato sui testi di marketing quale “case study”: sono forme volte ad attrarre consenso su situazioni drammatiche e tragedie. Non credo sinceramente, che un decreto nato e concepito con chiare finalità ideologiche dal suo (dai suoi) promotore/i, al di la di ogni mediazione parlamentare possibile, potesse prevenire un disagio umano grave che, purtroppo, non coinvolge solo la povera Chiara di cui sopra. E’ un dramma e disagio umano, per il quale il compianto e grande don Giussani ebbe a dire in un intervento divenuto icona del suo pensiero: “se vi fosse un’educazione del popolo, tutti starebbero meglio”. E’ un tema, quello educativo, che non si sostanzia in un “insieme di regole”, ma nel tirare fuori (educare significa tirare fuori) ciò che di buono chiunque di noi possiede. I cosiddetti talenti messi a frutto”.

Si è parlato di tutela dei diritti lgbtq+ ma è anche vero che chi ha “osato” dire “no” al ddl Zan, è stato messo alla gogna dagli stessi. Come successo a Don Maurizio Patriciello o agli appartenenti di Pro Vita & Famiglia, ricordando anche le immagini volgari e blasfeme del gay pride come la Vergine a forma di vagina o il Cristo gay.

Come si dovrebbe intendere tutto questo sia a livello giuridico che sociale?

“A livello giuridico posso riportare un fatto: alcuni anni fa, come associazione Giuristi per la Vita, querelammo il “Cassero LGBT” di Bologna che fece una festa intitolata “Venerdì Credici”, pubblicizzando molti scatti sui instagram e facebook, con tanto di performers travestiti da Madonne e Cristi letteralmente “impalati” (in simulazione, ovvio) da croci, Eucaristie distribuite da iconici e variopinti vescovi, e quant’altro di più sgradevole e trash si possa immaginare: il PM ha archiviato. Ha capito perché il problema in Italia, non è il codice penale di cui parlavamo sopra ? Quindi di cosa parliamo: di diritto ? di rispetto delle minoranze ? Di tolleranza e discriminazione ? Rispetto verso chi e cosa. E da parte di chi presumendo che non sia a senso unico …”

Domande provocatorie verso un’ideologia che provoca costantemente ma che, contestualmente non deve essere provocata. Di conseguenza tanto i quesiti tanto la provocazione dell’avv.Martini si potrebbero definire tanto amare quanto legittime.




Ancora madre violentata senza botte

Di Rita Lazzaro

Spesso si parla di papà separati vittime di ex mogli che non permettono loro di vedere i figli e di usarli come vera e propria arma di vendetta contro l’ex marito. Un dramma umano e familiare che ha sicuramente la sua verità ma non è la sola realtà esistente. Infatti avviene anche il contrario e spesso in contesti drammatici. Come successo a una donna, malata terminale, che non vede suo figlio da un anno e mezzo e non per sua volontà ma perché l’ex marito le impedisce di avere contatti con il figlio 12enne. La vicenda, riportata da Il Messaggero, si svolge a Frosinone. La signora, in cura all’ospedale Gemelli di Roma, è molto grave ed è sottoposta a cure palliative a causa di un cancro da cui è affetta da circa un anno e mezzo. Nonostante il parere positivo del Ctu e le continue richieste, non riesce a incontrare il ragazzino: il suo timore è di morire prima di riuscire a vederlo un ultima volta. La donna in passato aveva già denunciato suo marito per maltrattamenti. L’uomo è finito a processo e allo stesso tempo sono state avviate le pratiche per la separazione legale. La donna ha dichiarato che da anni era sottoposta a violenze psicologiche e vessazioni. Non è mai stata picchiata, le violenze non erano fisiche, ma veniva abusata a livello psicologico: l’uomo le avrebbe fatto pesare le sue umili origini, costretta a non far vedere i figli alla famiglia materna, che non potevano frequentare, e avrebbe fatto alla figlia oggi 17enne discorsi misogini. La 47enne non poteva usare gli elettrodomestici né usare internet. Le cose sono andate avanti in questo modo fino a che lei non ha deciso di denunciarlo. Un anno e mezzo fa le è stato diagnosticato un tumore, e ha quindi deciso di affidare il figlio 12enne al padre, in attesa di iniziare le cure. Da allora, non lo ha più visto. Ogni incontro è stato disatteso, ogni volta che si dovevano incontrare lui non si presentava. E così la donna ora ha paura di non vedere più il figlio e di morire prima che la situazione si risolva. Una storia aberrante e disumana, intrisa di misoginia e patriarcato.

Una disumanita’ con tanto di aggravante visto che avviene in un Paese dove ci sono state riforme su riforme a partire dagli anni 70 e dirette a garantire proprio quella parità di genere oggetto di tante battaglie. Una lotta continua che ha dato però i suoi frutti sia sotto l’aspetto civile che penale. Come la parità di diritti e doveri dei genitori verso i figli, siano essi nati fuori che dentro il matrimonio. Le due sentenze che hanno abolito il reato di adulterio(tradimento della donna verso l’uomo) e il reato di concubinato (tradimento dell’uomo verso la donna), emanate rispettivamente nel 1968 e nel 1969. La legge sul divorzio nel 1970.La legge sull’ aborto nel 1978. L’abolizione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore nel 1981. Passi avanti dove la donna e la figura materna non sono viste come mero oggetto da usare per dare la prole al marito e da sottomettere nel focolare domestico, ma dove la donna sia essa madre o meno è trattata come un soggetto di diritto.

Tra le riforme più recenti dirette a garantire la bigenitorialità in caso di separazione o divorzio da ricordare la legge 54/2006 e il d.lgs. 154/ 2013. Per questo motivo storie del genere sono una doppia sconfitta in quanto uno schiaffo per le lotte dirette a garantire la parità di genere e un oltraggio alla dignità umana.




Morti sul lavoro: risarcimento negato per scolaro e scandali

Di Rita Lazzaro

Non ci sarà alcun risarcimento da parte dell’Inail ai genitori di Giuliano De Seta, lo stagista morto il 16 settembre in un incidente in fabbrica a Noventa di Piave (Venezia). A renderlo noto è la famiglia del 18enne, che rimase vittima di un incidente in fabbrica durante il periodo di alternanza scuola-lavoro, quando fu travolto e ucciso da una lastra d’acciaio. La norma prevede infatti un indennizzo solo nel caso in cui il lavoratore abbia famigliari a carico. Il giovane si trovava in azienda per uno stage e non come operaio della ditta. Il processo sul mancato indennizzo deriva, inoltre, dal fatto che il ragazzo, travolto e ucciso da una lastra di acciaio, si trovava in azienda come stagista e non come operaio della ditta dove stava svolgendo il periodo obbligatorio di alternanza scuola-lavoro. Il processo nei confronti dei quattro indagati per la morte del 18enne – che studiava in un istituto superiore di Portogruaro – è in programma il 10 marzo. Questa di San Donà di Piave (Venezia),  in cui un 18enne e’ morto  sul lavoro schiacciato da una lastra di metallo: era una dramma avvenuto all’interno di  uno stage scolastico. Una situazione tanto tragica quanto ingiusta dove si ha la prova amara di come la giustizia non sempre vada di pari passo col senso di umanità e di rispetto della vita umana. Aspetti che però paradossalmente ne dovrebbero essere l’essenza della stessa. Purtroppo la lista dei giovani morti durante uno stage non si ferma qui. Da ricordare infatti la morte di Lorenzo Parelli, il ragazzo di 18 anni ucciso da una trave d’acciaio nell’ultimo giorno di tirocinio alla Burimec di Lauzacco, in Friuli, nell’ambito del progetto di alternanza scuola-lavoro, il 21 gennaio dell’anno scorso. Una morte che ha portato proteste in Friuli Venezia Giulia e in molte città d’Italia contro l’assenza di controlli nell’alternanza scuola-lavoro.

“Questa non è scuola, non è lavoro. Vogliamo sicurezza e diritti, stop Pcto (percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento) e stage che insegnano la precarietà”. E’ il messaggio della Rete degli Studenti Medi che avevano dato vita a una giornata di mobilitazione. “Lorenzo ha perso la vita durante una attività che il Ministero dell’Istruzione considerava formativa”, dice il coordinatore della “Rete degli Studenti Medi”, “non vogliamo che la sua morte passi in secondo piano”. Indignazione a quanto pare rimasta inascoltata. Non per nulla a poco più di un mese di distanza dalla morte di Lorenzo, nel febbraio dello stesso anno è la volta di Giuseppe Lenoci. Uno studente morto a 16 anni durante uno stage. Il sedicenne viaggiava a bordo di un Ford Transit guidato da un operaio di 37 anni. E tale mezzo, per cause ancora da accertare, si è schiantato contro un albero, che ha ucciso sul colpo lo studente. Ferito invece e’ risultato  l’uomo alla guida,  che e’ stato indagato dalla Procura di Ancona per omicidio colposo.

Gli studenti di Fermo a tal proposito, si sono cosi’ espressi: “Non chiamatelo incidente. Stop alternanza scuola-lavoro”. Il nome di Giuseppe Lenoci nel frattempo è stato più volte urlato dai suoi coetanei. “Non chiamatelo incidente”, hanno detto studenti e studentesse: “In meno di un mese – hanno dichiarato quelli del collettivo Depangher – è il secondo studente morto durante lo stage, stesso sistema del modello di alternanza scuola-lavoro. Entrambi mirano a sfruttare lo studente”.

Ma la morte di giovani vittime di un sistema mal gestito che vede l’alternanza scuola lavoro non è che la sua piaga che colpisce il diritto dei lavoratori. Questi ultimi purtroppo sono anche vittime dell’avidità e dell’ingordigia umana che mette il risparmio prima dell’incolumità umana mietendo così morti innocenti, la cui pecca era quella di esercitare un diritto che spetta loro,  ossia lavorare. Proprio come successo a Luana D’Orazio, la ragazza di 22 anni mamma di un bambino che rimase stritolata nell’orditoio a cui era addetta. Ebbene, secondo il giudice che due mesi fa ha condannato a due anni di reclusione Luana Coppini e a un anno e sei mesi Daniele Faggi, appare “evidente” che le “diverse manomissioni” al macchinario “sono state poste in attuazione di una medesima strategia imprenditoriale volta alla massimizzazione della produttività a discapito della sicurezza delle fasi delle lavorazioni”.

Nelle 17 pagine di motivazione della sentenza sulla suddetta morte bianca tra le piu’ clamorose della storia italiana, il gup richiama le considerazioni del consulente della Procura, che nella sua relazione aveva quantificato nella misura dell’8% i vantaggi produttivi derivanti “dall’intervenuta accertata manomissione dei macchinari che consentiva al lavoratore di accedere alle parti in movimento della macchina, senza l’impedimento della protezione, e dunque in maniera più celere seppur estremamente pericolosa”. Un terzo imputato per la morte della giovane, il manutentore Mario Cusimano, ha scelto di essere giudicato con rito ordinario: il processo si è aperto il 13 dicembre scorso, prossima udienza il 22 marzo.

E nella lunga e vergognosa mattanza di morti sul lavoro da ricordare i rider, definiti da numerosi giornalisti, semplicemente i nuovi schiavi in quanto vite umane trattate come mere macchine che hanno un solo compito: velocita’ e massimizzazione del profitto. Sebastian Galassi, rider 26enne, licenziato dalla società Glovo poiché che non aveva effettuato una consegna che gli era stata affidata. Un messaggio freddo sull’app, di quelli pre-impostati e automatici, lo informava che il rapporto di lavoro era terminato. Ma il ragazzo quel messaggio non l’ha mai letto. Infatti il ragazzo era deceduto in un incidente stradale a Firenze proprio mentre effettuava la consegna, ma ci hanno pensato i familiari a diffonderlo. L’azienda aveva detto che si era trattato di un errore e per rimediare ha promesso di pagare parte delle spese del funerale del ragazzo.

Purtroppo la morte di Galassi avvenuta il 3 ottobre del 2022 non è un caso isolato. Infatti nel marzo dello stesso anno, sempre in un incidente, a Livorno, perde la vita un altro rider, il 32enne Willy De Rose. Questo giovane era un grande appassionato di rugby: lo aveva praticato da ragazzo arrivando ad ottimi livelli nella Etruschi Livorno, poi la necessità di lavorare per una vita più stabile lo aveva costretto a trasferire l’amore per la palla ovale nel ruolo di allenatore dei ragazzini. “Mi ricordo certe mattine, quando saltavamo la scuola e andavamo al campo per vedere chi era più bravo a piazzare la palla ovale tra i pali”, ha raccontato al cronista locale Federico, il fratello maggiore di William, che fa il pizzaiolo dopo aver anche lui immaginato di lavorare come rider. William è morto a Livorno mentre a bordo dello scooter con la borsa termica, stava facendo la consegna per conto di una delle aziende che attraverso l’algoritmo cadenzano il ritmo (accelerato) della distribuzione incrociandolo con la comodità dei clienti.

Storie diverse ma tutte con tutte legate dallo stresso e amaro epilogo: la morte mentre esercitavano il diritto alla dignità, il diritto al lavoro. E risarcimenti irrisori o negati. Quel diritto che sa sempre più di sfruttamento e assenza di dignità anziché diretto a garantire una vita libera e dignitosa proprio come previsto dalla nostra Costituzione. A quanto pare anche quest’ultima morte si incanala tra i decessi avvenuti in uno stato che, nonostante questi orrori, osa ridimensionare con cesure alla spesa, la propria componente davvero “sociale”.




Aggressione stranieri sui treni al Nord

Di Rita Lazzaro

Il 6 gennaio è stata un’Epifania amara per una giovane italiana. Tutto ha luogo sulla tratta Lucca-Pisa. Una ragazza ventenne ha raccontato agli agenti di essere stata avvicinata mentre si trovava sul treno sulla tratta Lucca-Pisa. Un uomo di apparente origine nordafricana, appena dopo la stazione di San Giuliano Terme, le avrebbe fatto pesanti apprezzamenti ed espliciti inviti di carattere sessuale. Dopo il rifiuto l’uomo l’avrebbe minacciata e costretta a quel punto a seguirlo nella carrozza attigua, per palparla nelle parti intime fino all’arrivo del treno a Pisa. La vittima una volta scesa dal treno si è rivolta e si è diretta presso gli uffici della Polizia Municipale per sporgere denuncia, ancora visibilmente scossa e spaventata. Le ricerche dell’uomo sono partite immediatamente e grazie alla descrizione è stato visto dalle telecamere di sorveglianza comunali all’uscita della Stazione Centrale. Le pattuglie di ricerca, dopo qualche ora, hanno rintracciato il soggetto in viale Cesare Battisti. Una volta portato al Comando sono state avviate le procedure di rito: l’identificato è un 46enne marocchino, pregiudicato per reati inerenti gli stupefacenti e regolarmente residente in Italia. Riconosciuto dalla vittima, è stato denunciato per violenza sessuale e lesioni personali e messo a disposizione dell’Autorità Giudiziaria, che ora vaglierà la posizione per decidere l’eventuale applicazione di una misura cautelare. Non è certo il modo migliore per cominciare l’anno soprattutto con le indegne e vergognose vicende successe in quello precedente. Infatti non è la prima volta che le nostre connazionali, spesso giovani donne, sono vittime di molestie sessuali, tentativi di stupro e violenza sessuale. Basti pensare, ad esempio, a quanto è successo il 2 giugno quando delle ragazzine italiane sono state molestate sul treno, ma – stando a quanto raccontato dai genitori – nessuno sarebbe intervenuto. Le sei amiche tra i sedici e i diciassette anni, si trovavano a bordo del treno regionale 2640 partito da Peschiera del Garda, comune in provincia di Verona, e diretto a Milano. Il gruppo, quattro ragazze, sono di Milano e due di Pavia, aveva appena trascorso una giornata a Gardaland. In base a quanto riportato dal quotidiano “Il Giorno”, le minorenni sarebbero state molestate da un gruppo di giovani che le avrebbero circondate: “Il caldo era asfissiante, alcune di noi sono svenute”, e proprio mentre cercavano un controllore, il gruppo di ragazzi le avrebbero aggredite: “Ridevano. Ci dicevano “le donne bianche qui non salgono”. Le minorenni hanno anche raccontato che, poco prima di salire sul treno, la banchina e i binari erano state invase da oltre un centinaio di giovani: “Urlavano e correvano. Hanno anche sputato sui finestrini di un treno arrivato prima del nostro”. Le ragazze, dopo essere state aggredite, non avrebbero chiamato le forze dell’ordine. Avrebbero infatti raccontato tutto ai genitori che sostengono di aver chiamato il 112 “ma nessuno è intervenuto”. Il gruppetto di adolescenti è stato poi aiutato da un ragazzo che le ha fatte scendere a Desenzano. Tutte quante hanno poi presentato la loro denuncia alla Polfer della Stazione centrale di Milano.

“Qui le donne bianche non salgono”. Frase ripugnante tanto quanto lo è il puntuale silenzio femminista su simili abomini purtroppo sempre più frequenti. Infatti quanto successo questa estate è uno dei tanti, troppi casi in cui le donne sono vittime di condotte animalesche e dall’assenza delle istituzioni che continuano a non voler né vedere né sentire né tanto meno agire, rendendo così treni e stazioni delle vere e proprie trappole per donne sole e indifese. Purtroppo è anche successo che l’aggressione andasse oltre, consumandosi in un vero e proprio stupro e non risparmiando neppure le più anziane. Come è successo nel 2020 quando una 60enne è stata aggredita e violentata sul treno. La donna è stata salvata dal personale in servizio sul treno che aveva sentito le grida di aiuto. La violenza è avvenuta su una corsa della Roma – Avezzano. Mentre la vittima veniva soccorsa e trasportata all’ospedale di Tivoli, l’aggressore in fuga nelle campagne di Marcellina è stato arrestato dopo poco. Lui, 28 anni straniero regolarmente in Italia da cinque anni e senza precedenti penali alle spalle, è finito in manette con l’accusa di violenza sessuale aggravata. Abomini che confermano i dati dell’Istat secondo cui il 42% delle violenze sessuali in Italia avviene per mano straniera. I dati Istat hanno certificato come quasi la metà dei reati contro le donne avvengono da cittadini di origine straniera, soprattutto extracomunitaria. A sottolinearlo è un articolo di Gianluca Veneziani su Libero. In esso vengono presi in esame i numeri, tanto freddi quanto però esplicativi, sulle violenze contro le donne. Nel 2018, ultimo anno per il quale l’Istat ha al momento reso noti i dati, sono stati denunciati alle autorità giudiziarie 4.802 episodi di violenza. Di questi, 2.009 sono stati commessi da stranieri. In termini percentuali, il dato corrisponde al 41.8%. Andando poi nel dettaglio, si scopre che quella percentuale del 41.8% è composta per il 35% da stranieri di origine extra europea. Tra questi, spiccano reati commessi da marocchini e nigeriani. Vi è poi un 5.8% che rappresenta il dato dei cittadini di origine rumena, la restante parte dello 0.9% è composta da altri cittadini Ue. Buona parte delle violenze nel 2018 sono avvenute all’interno della stessa comunità di appartenenza del carnefice.

Oltre che quello sulle violenze, c’è anche un altro dato che inquieta e non poco e che riguarda lo sfruttamento e il favoreggiamento della prostituzione. Seguendo sempre i dati Istat del 2018, il 68.8% di questa fattispecie di reato è ascrivibile alla popolazione straniera. Percentuali molto alte di stranieri anche per quanto riguarda lo stalking, dove si tocca il 16.4%, e gli atti sessuali con minorenni, la cui cifra è del 24.65%. I dati hanno inoltre evidenziato l’alta incidenza, tra gli extra comunitari che compiono questo tipo di reati, di giovani: tra i non italiani denunciati per violenza sessuale, il 64.2% ha tra i 18 e i 24 anni, mentre il 59.7% tra i 25 e i 34 anni. Gianluca Veneziani ha sottolineato che la pericolosità aumenta soprattutto tra gli stranieri più giovani. Colpisce come almeno una donna su quattro vittima di violenza sia straniera, spesso connazionale del carnefice. Tra queste, molte sono giovanissime e hanno un’età compresa tra i 18 e i 24 anni. Il timore però che i dati non siano del tutto esatti è elevato: l’Istat inserisce infatti solo le denunce effettuate; a mancare all’appello potrebbero essere molti casi di donne che, per timore o per altri motivi, hanno remore a fare nomi e cognomi dei propri aguzzini. La popolazione straniera quindi è quella più coinvolta nei reati contro la donna. Sia perché in essa si celano i carnefici e sia perché è proprio tra le straniere che si contano tante e troppe vittime. Uno scenario raccapricciante che riporta a pagine buie della nostra storia ma soprattutto delle nostre donne. Il tutto nel silenzio politicamente corretto di una politica volutamente sorda, muta e cieca, stranamente la stessa che batte i pugni sul tavolo il 18 maggio, giornata internazionale delle vittime delle violenze.




Morte per influencer: aumenti clamorosi di tumori

Di Rita Lazzaro

“Alla fine, la vita è rappresentata dai ricordi che portiamo con noi, le persone, l’amore, e io ho già vinto. Per l’amore, per la mia lotta, per le persone, per sempre”. Così diceva esattamente un mese fa Elena Huelva, influencer di Siviglia, morta a soli 20 anni ,il 3 gennaio, dopo aver lottato per quattro anni contro il sarcoma di Ewing, un raro tipo di tumore che si manifesta nelle ossa o nei tessuti molli che le circondano.
Dal 2018, la giovane influencer ha guadagnato sempre più notorietà sui social network, dove ha raccontato la sua malattia a centinaia di migliaia di follower.
La sua parola d’ordine era ‘la mia volontà vince‘ (#MisGanasGanan),diventando così un esempio di vita per tutti per la sua forza, il suo coraggio dettati dalla sua fama di vita.
Tra gli obiettivi di Elena, c’era anche la sensibilizzazione sull’urgenza di dedicare maggiori risorse alla ricerca sul cancro.
L’impatto del suo racconto si è riflesso nelle numerose espressioni di affetto, ammirazione, dolore e gratitudine che hanno invaso quegli stessi social network quando la sua famiglia ha annunciato la morte della ragazza su Instagram. Da stamattina Elena “vi guarda dalla sua stella. Grazie di tutto“, si legge nella storia pubblicata sul profilo stesso della ragazza, dove era seguita da oltre 600.000 mila follower, tra cui Sara Carbonero. Artisti come Aitana, Alejandro Sanz o Manuel Carrasco, la conduttrice Ana Obregón, che ha perso anche suo figlio a causa del sarcoma di Ewing, o personaggi di spicco della politica spagnola hanno espresso le proprie condoglianze e la propria solidarietà nelle ore immediatamente successive il lutto. “Con la tua voglia di fare ci hai conquistato tutti e rimarrai per sempre nei cuori di molte persone”, ha detto il presidente della Junta de Andalucía, Juanma Moreno, che ha ringraziato Elena per aver fornito “luce e speranza”.
Ed è allora che il suo motto #MisGanasGanan è diventato un messaggio di ottimismo e speranza di fronte a una malattia che ha colpito la giovanissima Elena ad appena 16 anni, tra battute d’arresto, momenti di luce, ricoveri in ospedale e i suoi ritorni a casa con la famiglia. A Hola aveva detto: “Avevo 16 anni, ero adolescente, avevo programmato viaggi con gli amici, studiavo. E tutto si è bloccato”.
Nell’ultimo video condiviso sui social, la giovane ha aggiornato i follower sul suo stato di salute, che è peggiorato nell’ultimo periodo: “Qualunque cosa accada, so che la mia vita non è stata vana, perché ho combattuto e ho ottenuto ciò che volevo”.
Elena purtroppo non è l’unica guerriera che ha perso contro il cancro. Infatti prima di lei un altro modello di forza e coraggio ha lottato fino alla fine contro quel maledetto male che non le ha dato scampo, ovvero Alice Manfrini, morta il 7 novembre a 24enne.
Anche lei aveva il sarcoma di Ewing. Un maledetto canchero contro cui combatteva da un anno e mezzo. Ed anche lei era dedita usare i social per raccontare la sua malattia. Seguita da oltre 40mila persone, che ogni giorno digitavano il suo nome su TikTok nella speranza di avere notizie positive.
Dalla diagnosi di cancro arrivata esattamente nel giorno successivo all’ultimo esame sostenuto all’università, prima della laurea. E a seguito della quale è scomparsa, alcune settimane fa.
C’è stato un giorno in cui Alice Manfrini aveva chiesto più delicatezza. “So che mi scrivete perché ci tenete a me, ma vi chiedo di rispettare i miei tempi”, ha risposto a chi le domandava continui aggiornamenti sul suo stato di salute, dal momento che l’ultimo video lo aveva pubblicato nella settimana precedente.
Tutto con una condotta gentile, educata ma soprattutto umana. Lei non voleva essere una “tiktoker”,e non aveva la pretesa di essere d’esempio per qualcuno, né battaglie da intitolarsi o la presunzione di messaggi da gridare collettivamente su un tema così personale come è la malattia. Si è solo ritrovata a dimostrare ciò che la sua forza gli suggeriva di fare: ovvero che affrontare il cancro con lucidità era possibile.
Le lastre condivise a gennaio, quella macchia sul ginocchio di cui i medici hanno capito troppo tardi la natura cancerogena, le fotografie così crude della cicatrice post operatoria, il viso sempre più tirato dell’ultimo periodo, quando la malattia aveva colpito i nervi vicino al midollo, quelle metastasi che correvano “più veloce delle cure”.
L’invito a credere nella scienza. Le cure palliative. Quel primo “ormai” pronunciato a fine settembre: “È la prima volta che ho visto i miei oncologi veramente preoccupati ed è stata un po’ una sentenza. Ma voglio tranquillizzarvi perché io continuerò con la mia vita, inizierò un piccolo lavoretto, proverò a fare viaggi come se nulla fosse”. Come se nulla fosse, per rispetto verso la vita”. Le ultime clip non parlate, ma solo scritte: “Se mi mostrerò sempre meno capirete perché”. L’ultimo video da mezzo milione di visualizzazioni, il primo novembre. L’abbraccio virtuale dei quarantamila, che però non sono mai abbastanza. Il silenzio.
Rispetto verso la vita. E’ questo il punto di forza che contraddistingue queste donne al punto da trasmettere la loro voglia di vivere, al punto da diventare esempi di vita ed al punto di sconfiggere la morte stessa perché chi lascia il segno nei cuori di chi resta, vive in eterno.

Ma c’è anche chi continua a lottare e a sensibilizzare il più possibile tramite i social su un male che, purtroppo, è sempre più diffuso. Come Philecia La’Bounty, modella e ora seguitissima sul suo profilo Tik Tok, con oltre 40mila followers.
Nel 2018 i medici le avevano detto che era troppo giovane per sottoporsi a una mammografia, nonostante avesse un nodulo al seno. Adesso ha un tumore al quarto stadio.
Nel 2018 i medici a cui si era rivolta le avevano detto che era troppo giovane per sottoporsi a una mammografia, nonostante avesse un nodulo al seno. Adesso ha un tumore al quarto stadio.
I sanitari si erano anche rifiutati di sottoporla a una mammografia perché considerata inutile data la sua giovane età. Dopo 8 mesi e diverse visite mediche, la ragazza ha scoperto di avere un tumore al seno ormai al quarto stadio. Il cancro si era infatti diffuso in altre zone del corpo, ed in particolare ai polmoni, ai linfonodi ed allo sterno. Subito ha confessato di aver pensato“alla morte”, come fa la maggior parte delle persone quando sente la parola cancro”, dimostrandosi delusa e abbandonata dai medici.

Dopo aver avuto la terribile diagnosi, la donna acclamatissima sul social network piu’ utilizzato dai giovanissimi, ha dovuto sottoporsi a una menopausa farmacologica, a causa dalla chemioterapia utilizzata per trattare il tumore.
Sui social la 35enne ha confessato di sentirsi ogni mattina come una vecchietta, con le articolazioni rigide, stanca e sofferente. Dopo aver scoperto che la chemioterapia avrebbe potuto renderla sterile, Philecia ha deciso di congelare dieci ovuli. La vita è cambiata non solo a lei, ma anche al marito, alla sua famiglia, e ai suoi amici più cari. “Cerco di non pensare troppo a come sarebbe potuta andare se i medici se ne fossero accorti prima. Tanto questo non mi farà scomparire la fase”, ha spiegato su Tik Tok, anche perché pensare che avrebbe potuto avere a che fare con un tumore al secondo stadio, e non al quarto, è scoraggiante.
La modella ha scelto di utilizzare il social per raggiungere quante più persone, spiegando loro i rischi che si corrono senza una prevenzione adeguata, i sintomi e anche per dare informazioni riguardo la menopausa precoce. Proprio riguardo quest’ultimo aspetto, la ragazza famosa ha spiegato: “È più comune nelle giovani donne di quanto la gente si aspetti. C’è un’epidemia di giovani donne che scoprono di avere un cancro al seno e di conseguenza sono state messe in menopausa precoce, e nessuno ne parla”. La 35enne ha detto di sentirsi orgogliosa e realizzata quando riceve dei messaggi da persone che grazie a lei non si sentono sole. A tal proposito da ricordare che in Italia si stimano in un anno 377.000 nuove diagnosi di tumore, circa 195.000 fra gli uomini e circa 182.000 fra le donne.
Nel corso della vita circa un uomo su 2 e una donna su 3 si ammalerà di tumore.
Dati allarmanti dove la parola d’ordine è prevenzione nonché investire il più possibile nella ricerca per combattere con piccoli grandi passi un male che continua a spezzare vite prima ancora di essere vissute.




Acca Laurentia: attentato anti fascista anniversario

Di Rita Lazzaro

«Un nucleo armato, dopo un’accurata opera di controinformazione e controllo alla fogna di via Acca Larenzia, ha colpito i topi neri nell’esatto momento in cui questi stavano uscendo per compiere l’ennesima azione squadristica. Non si illudano i camerati, la lista è ancora lunga. Da troppo tempo lo squadrismo insanguina le strade d’Italia coperto dalla magistratura e dai partiti dell’accordo a sei. Questa connivenza garantisce i fascisti dalle carceri borghesi, ma non dalla giustizia proletaria, che non darà mai tregua. Abbiamo colpito duro e non certo a caso, le carogne nere sono picchiatori ben conosciuti e addestrati all’uso delle armi.»
Questa è la rivendicazione della strage di Acca Larentia a nome dei “Nuclei Armati di Contropotere territoriale”.
Sono passati 45 anni da quel maledetto 7 gennaio dove persero la vita due giovani attivisti del Fronte della Gioventù, Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, assassinati davanti alla sede del Movimento Sociale Italiano in via Acca Larentia, nel quartiere Tuscolano.
All’evento è tradizionalmente collegata la morte di un altro attivista della destra sociale, Stefano Recchioni, ucciso qualche ora dopo da un capitano dei Carabinieri, negli scontri con le forze dell’ordine avvenuti durante una manifestazione di protesta organizzata sul luogo stesso dell’agguato.
La strage ebbe inizio verso le 18:20 del 7 gennaio 1978, quando cinque giovani militanti missini,mentre si apprestavano a uscire dalla sede del Movimento Sociale Italiano in via Acca Larenzia per pubblicizzare con un volantinaggio un concerto del gruppo di musica alternativa di destra Amici del Vento, furono investiti dai colpi di diverse armi automatiche sparati da un gruppo di fuoco formato da cinque o sei persone. Uno dei militanti, Franco Bigonzetti, ventenne iscritto al primo anno della facoltà di medicina e chirurgia, rimase ucciso sul colpo.
Il meccanico Vincenzo Segneri, ferito a un braccio, rientrò nella sede del partito e, assieme agli altri due militanti rimasti illesi – Maurizio Lupini, responsabile dei comitati di quartiere, e lo studente Giuseppe D’Audino – riuscì a chiudere dietro di sé la porta blindata, sfuggendo in questo modo all’agguato.
Lo studente diciottenne Francesco Ciavatta, pur ferito, tentò di fuggire lungo la scalinata situata a lato dell’ingresso della sezione ma, inseguito dagli aggressori, fu colpito nuovamente alla schiena; morì in ambulanza durante il trasporto in ospedale.
Nelle ore seguenti, col diffondersi della notizia dell’agguato tra i militanti missini, una folla sgomenta di attivisti organizzò un sit-in di protesta sul luogo della tragedia. Qui, forse per il gesto distratto di un giornalista che avrebbe gettato un mozzicone di sigaretta nel sangue rappreso sul terreno di una delle vittime, nacquero tafferugli e scontri che, fra l’altro, danneggiarono le apparecchiature video dei giornalisti Rai e provocarono l’intervento delle forze dell’ordine, con cariche e lancio di lacrimogeni. Uno di questi colpì anche l’allora segretario nazionale del Fronte della Gioventù, Gianfranco Fini.

Secondo alcune testimonianze, smentite molti anni dopo da perizie balistiche, i Carabinieri spararono alcuni colpi in aria mentre il capitano Eduardo Sivori sparò mirando ad altezza d’uomo, ma la sua arma s’inceppò; l’ufficiale si fece quindi consegnare la pistola dal suo attendente e sparò di nuovo, questa volta centrando in piena fronte il diciannovenne Stefano Recchioni, militante della sezione di Colle Oppio e chitarrista del gruppo di musica alternativa Janus. Questa versione si rivelò completamente priva di fondamento tanto che diversi anni dopo l’ufficiale fu assolto per non aver commesso il fatto. Il giovane sarebbe morto dopo due giorni di agonia.
Inizialmente i compagni di partito delle vittime tentarono di raccogliere le firme per denunciare l’ufficiale ma i dirigenti del MSI rifiutarono di testimoniare per non pregiudicare i loro buoni rapporti d’immagine con le forze dell’ordine. L’ufficiale venne indagato in seguito a una denuncia presentata individualmente in questura da Francesca Mambro.
Anni dopo Francesco Cossiga, all’epoca dei fatti Ministro dell’interno, avrebbe rivelato che l’allora capitano (poi arrivato al grado di generale), dopo aver sparato, sarebbe caduto in stato confusionale e avrebbe temuto ritorsioni per la sua famiglia.In seguito Sivori in base a una perizia balistica fu definitivamente scagionato con sentenza di proscioglimento definitivo nel febbraio del 1983.
In un’occasione l’ufficiale sostenne che il colpo che uccise Recchioni fosse stato sparato da brigatisti lì presenti.
Le prime indagini non portarono a conclusioni di rilievo. Il capitano dei Carabinieri Eduardo Sivori, inizialmente indagato, fu prosciolto dal giudice istruttore Guido Catenacci il 21 febbraio 1983, con sentenza di proscioglimento definitivo.
Nel 1987, in seguito alle confessioni di una pentita, Livia Todini,si arrivò a individuare cinque responsabili, militanti di Lotta Continua, accusati per il duplice omicidio. Mario Scrocca, Fulvio Turrini, Cesare Cavallari e Francesco de Martiis furono arrestati; Daniela Dolce,[14] ultima accusata, scappò all’arresto fuggendo in Nicaragua.
Scrocca, il giorno dopo essere stato interrogato dai giudici, si tolse la vita in cella in circostanze sospette.Gli accusati furono poi assolti in primo grado per insufficienza di prove.
Una delle armi utilizzate nell’agguato, una mitraglietta Skorpion, fu poi rinvenuta, nel 1988, in un covo delle Brigate Rosse, in via Dogali a Milano. Gli esami balistici svelarono che quella stessa arma fu utilizzata in altri tre omicidi firmati dalle BR: quello dell’economista Ezio Tarantelli nel 1985, dell’ex sindaco di Firenze Lando Conti nel 1986 e del senatore democristiano Roberto Ruffilli nel 1988.
Nel 2013, a seguito di un’interpellanza parlamentare, venne ricostruita la provenienza iniziale dell’arma, che fu originariamente acquistata, nel 1971 dal cantante (e appassionato di armi) Jimmy Fontana, e da questi venduta, nel 1977, a un commissario di polizia, lasciando però ignoto il modo in cui l’arma sia poi giunta nelle mani dei terroristi.
Ma la strage di Acca Larenzia non ebbe solo tre vittime. I giovani Bigonzetti, Ciavatta e Recchioni furono solo i primi di una lunga lista di vittime legate alla strage del 7 gennaio.
Infatti pochi mesi dopo la morte del suo unico figlio, Antonio Ciavatta, padre di Francesco, non sopportando la perdita del suo unico figlio, si suicidò.
La famiglia Ciavatta proveniva da un’estrazione popolare, i genitori della giovane vittima lavoravano entrambi come portieri in uno stabile in via Deruta, e Francesco, diciotto anni, unico figlio, frequentava il quarto anno al Liceo e si era iscritto al Fronte della Gioventù per la passione nell’organizzare qualsiasi attività politica. Dopo la morte di Francesco Ciavatta, Patrizia Walton, dirigente del Movimento Sociale Italiano, fu incaricata di seguire la famiglia Ciavatta. Dopo alcuni mesi la situazione era preoccupante. Nel suo rapporto a Giorgio Almirante, spiegava che il padre, Mario, aveva accusato malissimo il colpo. Chiuso in un preoccupante stato di mutismo: taciturno, silenzioso, un uomo spezzato dal dolore. Mentre la moglie, Angiolina Mariano, piangeva, si disperava ma riusciva ad esternare tutte le sue emozioni. Dopo pochissimi giorni, il padre di Francesco Ciavatta si suicidò bevendo, fino all’ultima goccia, acido muriatico contenuto in una bottiglietta. Fu ritrovato cadavere nei giardinetti pubblici senza labbra.
Arriviamo alla sera del 10 gennaio 1979 quando si consumo’ l’efferato assassinio del giovane 17enne, Alberto Giaquinto.
Il giovane fu ucciso da un poliziotto in borghese, Alessio Speranza, con un colpo alla nuca mentre si allontanava pacificamente da una manifestazione.
Giaquinto era insieme al suo amico Massimo Morsello, cantautore e poeta, che cercò inutilmente di dargli i primi soccorsi. L’ambulanza arrivò solo 30 minuti dopo, e dopo poche ore Alberto cessava di vivere tra le braccia della madre. Molti giovani avevano visto quello che era accaduto, ma quando andarono in commissariato a testimoniare, si videro denunciati perché la manifestazione non era autorizzata. Vergogna nella vergogna, perché – come disse alla Camera lo stesso Giorgio Almirante – il Msi aveva ben chiesto con settimane di anticipo alla questura l’autorizzazione a ricordare i morti di Acca Larenzia con un corteo silenzioso aperto dai parlamentari del partito, cosicché non ci fosse pericolo di disordini. Ma dopo aver perso tempo per parecchi giorni, il ministro dell’Interno aveva rimandato i missini al questore, il quale disse, all’ultimo momento, come faceva spesso, che il corteo non si sarebbe fatto. Ma i giovani missini avevano il diritto e il dovere di ricordare i loro morti, soprattutto perché le indagini su Acca Larentia non avevano alcuna svolta.
Sin dal primo momento si tentò, da parte delle sinistre e dei soliti giornali di regime, e anche da parte della questura, di infangare e calunniare Alberto Giaquinto, dicendo falsamente che era armato, che aveva munizioni, che aveva minacciato i poliziotti: tutte menzogne smentite dalla realtà dei fatti, in quanto nessuna pistola fu mai trovata, né le munizioni, e fu altresì provato che il giovane stava andando via.
Infatti nei momenti in cui Giaquinto agonizzava e la famiglia era accorsa all’ospedale San Giovanni, la questura inviò una perquisizione a casa Giaquinto, all’Eur, nella frenetica ricerca di un’arma che non fu ovviamente mai trovata. “Non la troviamo , non la troviamo!”, “La dovete trovare!”, era il tono delle telefonate tra i poliziotti e la questura a casa Giaquinto.
Ma la vergogna non si attesta infatti dopo l’assassinio: il ministero rifiutò per giorni di fornire il nome del poliziotto. Una condotta intrisa da un’indegna e incivile omertà.

Una situazione a dir poco allucinante per quello che dovrebbe essere uno stato di diritto.
Una situazione così vergognosamente allucinante che porterà il padre della vittima a trovare le risposte per avere così giustizia.
Teodoro Giaquinto era un farmacista che aveva la sua attività a Ostia, simpatizzante missino, tanto che ogni mese non mancava di far avere il suo piccolo contributo alla locale sezione del Msi, poiché allora non c’era il finanziamento pubblico e il Msi appariva che non rubava come invece facevano i partiti dell’arco costituzionale. Questo padre, infatti, visto che gli inquirenti non facevano il loro mestiere, anzi ostacolavano la ricerca della verità, pagò di tasca propria un’agenzia di investigazioni la quale sentì centinaia di testimoni, sia tra i ragazzi che avevano partecipato alla manifestazione sia tra gli abitanti del luogo sia tra i commercianti nei pressi di piazza dei Mirti. Nessuna pista fu trascurata, e in breve si seppe la verità. Fu Almirante che in un’interrogazione parlamentare, atto insindacabile, fornì al Viminale il nome del colpevole. Ma le denunce per i missini che si erano recati a testimoniare rimasero.
Alla catena di ingiustizie ecco il colpo di grazia: Speranza fu condannato a sei mesi per “eccesso colposo di legittima difesa”.
Condanna a dir poco inquietante dal momento che una persona amata non può macchiarsi di eccesso di legittima difesa verso una persona disarmata che, per di più, era intento ad allontanarsi anziché aggredire. Una morte ingiusta con un’ingiusta giustizia. Una delle tante dove viene spezzata una giovane vita. Quella di uno studente amato da tutti, estroverso, amante della musica e del calcio, allegro, come tutti i ragazzi della sua età.
Ma la sua morte non fu scolpita come quella di altre vittime care al sistema democraticamente in rosso.
Perché?
Semplice: era solo un fascista.
Una delle tante, troppe vittime di terroristi di sinistra o delle forze dell’ordine, volutamente gettate nel limbo.
Come quella di Mauro Culla, amico e compagno di classe di Alberto Giaquinto, rimasto così turbato per la morte dell’amico da togliersi la vita impiccandosi.
Vicende, eventi, colpi di scena, che vedono vite spezzate e famiglie distrutte in quella che più che una strage sa di una spirale maledetta scritta col sangue di italiani per mano di altri italiani.




Benedetto XVI e cristianofobia

Di Rita Lazzaro

In base ad un Rapporto di Pew Research Center del 2011, intitolato “The future of global muslim population”, i musulmani presenti nel continente europeo sono 43 milioni (se consideriamo anche la Russia), e rappresentano circa il 5,6% della popolazione totale.Tali dati fanno riferimento al 2010, mentre per il 2050 si stima una presenza di 70 milioni, con un’incidenza pari al 10% circa.
Proseguendo sempre in base ai dati emessi da tale rapporto, i musulmani sono attualmente più di 20 milioni e rappresentano circa il 6% della popolazione comunitaria. Come sopra accennato, in seguito al grande afflusso di rifugiati giunti in Europa nel 2015, la Germania ha accolto circa 700 mila profughi di fede musulmana, e ad oggi il paese conta nel suo territorio circa 6 milioni di musulmani. La presenza musulmana in Germania rappresenta dunque, insieme anche alla Francia (5,8% milioni di musulmani), tra le più elevate in termini numerici in tutta Europa. Un numero che ha portato a parlare di islamofobia ossia “avversione nei confronti dell’Islam e dell’islamismo” .
Un fenomeno sociale non facile da definire, poiché da un lato si può rischiare di una sopravvalutazione/generalizzazione, dall’altro del ridimensionamento/negazione della sua portata sociale e politica.
Una situazione che nel 2013 ha portato alla risoluzione del Parlamento europeo sul potenziamento della lotta al razzismo, alla xenofobia, all’antisemitismo, all’islamofobia, all’ostilità verso i Rom (Sinti, nomadi), all’omofobia, alla transfobia e a tutte le altre forme di discriminazione.
Da notare la presenza del termine islamofobia e la mancanza di quello concernente la cristianofobia.
Un’ assenza alquanto strana per non dire inquietante, visto che la religione cristiana è quella più perseguitata al mondo.
Una persecuzione che, per di più, è in continuo aumento.
Dati docent: nel mondo sono oltre 360 milioni i cristiani vittime di un livello alto di persecuzione e discriminazione a causa della loro fede. Uno ogni sette.

L ‘Afghanistan oggi è il Paese più pericoloso al mondo per i cristiani, seguito da Corea del Nord, Somalia, Libia, Yemen, Eritrea, Nigeria, Pakistan, Iran, India e Arabia Saudita, solo per citare i primi dieci Paesi.
Questo è quanto è emerso dall’ analisi della ” World Watch List” 2022, rapporto sui 50 Stati dove i cristiani subiscono persecuzioni, curato dall’organizzazione Porte Aperte/Open Doors per il periodo primo ottobre 2020 – 30 settembre 2021, presentata agli ultimi giorni dell’anno alla Camera dei deputati.
Da ricordare che la cristianofobia si sta espandendo a macchia d’olio anche in Europa.

‘Fuego al Clero’ è stata l’ultima campagna d’odio lanciata in Spagna contro i seguaci di Gesu’ Cristo. Lo slogan violento inventato per incitare a bruciare chiese, sacerdoti e religiosi cattolici non ha riscosso veti e biasimo di sorta. L’appello ad azioni terroristiche che prendono di mira la cattolicità non è stato censurato né condannato nelle opportune sedi, tra social, istituzioni ed Ong.
Nella cattolica Polonia l’attacco alla Chiesa non è meno violento. Dopo la sentenza di incostituzionalità dell’aborto eugenetico, la reazione del terrorismo anti cattolico non s’è fatta attendere. Per diverse settimane i polacchi hanno subito l’aggressività, la volgarità e la violenza di chi non ha digerito l’iniziativa della Corte Costituzionale. Gruppi di abortisti organizzati e manovrati hanno iniziato a profanare gli edifici ecclesiastici, dedicandosi anche ai graffiti per rovinarne le facciate e al lancio di rifiuti ed escrementi. Al punto che gli stessi fedeli hanno dovuto presidiare, fisicamente, le chiese per difendere il Santissimo e l’integrità delle strutture. Simbolo dei manifestanti, che hanno messo a ferro e fuoco le città, un fulmine rosso.
Anche la banca mBank (appartenente alla tedesca Commerzbank) ha realizzato un video di sostegno alle manifestazioni intitolato «Wspieramy» (Noi sosteniamo); è bastato qualche giorno perché il quotidiano di sinistra, Gazeta Wyborcza, di George Soros, annunciasse il lauto finanziamento delle future manifestazioni.
In Francia l’assedio alla cristianità sembra essere preso da una spirale di violenza senza fine. Gli incendi dolosi che hanno coinvolto le chiese cattoliche francesi, e che non hanno mai un colpevole, sono sempre più diffusi. L’incendio appiccato nella cattedrale gotica di San Pietro e Paolo, a Nantes il 18 luglio 2019, è stato segnalato in tutto il mondo. Ma gli attentati incendiari contro le chiese francesi, di solito, non fanno notizia a livello internazionale. Notre Dame, Saint Denis, Rennes, Saint Sulpice a Parigi, Pontoise, Nancy, Nantes, Nostra Signora delle Grazie di Revel, Saint-Jean-du-Bruel di Rodez, la cattedrale di Saint Alain di Lavaur, sono solo i casi più eclatanti.
In Francia la cristianofobia è aumentata del 300% in dieci anni.
In Inghilterra e Galles, il governo ha cercato di fornire un sostegno finanziario ai luoghi di culto potenzialmente a rischio di attentati. In Francia è nata l’iniziativa spontanea ‘Protège ton église’, Proteggi la tua chiesa: i giovani cattolici si stanno organizzando nelle città di tutta la Francia per controllare le loro chiese di notte e rendere visibile la presenza del cattolicesimo.
In Italia la cristianofobia trova la sua espressione migliore nei numerosissimi casi di statue della Vergine e di Gesù divelte e imbrattate, ma soprattutto nell’annosa aggressione a crocifissi e presepi nei luoghi pubblici. Gli incendi dolosi sono cosa rara, ma intanto don Malgesini, a settembre del 2019,veniva assassinato da un immigrato clandestino perché sacerdote. Ma gli episodi spesso non finiscono nemmeno sulla cronaca completamente disinteressata alla faccenda.
La cristianofobia non si è fermata neppure durante il periodo natalizio. Basti pensare infatti a quanto successo a Bergamo nella notte tra il primo ed il 2 gennaio, dove la statuetta di Gesù bambino è stata trafugata dal presepe allestito in piazza Italia. A dare notizia dell’accaduto è stato il sindaco Camillo Bertocchi, mentre indignazione per l’accaduto è stata espressa dal Circolo Fratelli d’Italia Bergamo Est.
Poco prima di quest’ «atto vile e ignobile», così come definito dal primo cittadino, a Reggio Emilia si sono verificati svariati atti di vandalismo contro la Natività.
Infatti diversi presepi, in aree pubbliche ma anche private, hanno subito danneggiamenti agli addobbi, furti di luminarie, perfino statue di Gesù bambino sparite. Come accaduto al presepe in centro a Rolo , dove si sono aggiunti anche dei vandalismi gratuiti. Tanto che gli organizzatori di “Rolo in festa” hanno lasciato un messaggio di condanna rivolto proprio agli autori del gesto. Simili episodi si sono verificati pure a Roncocesi e Vezzano . Danneggiamenti pure a un presepe in un cortile privato nel quartiere Espansione sud a Correggio , oltre che a Reggiolo .
Perfino nella chiesa a San Martino di Guastalla qualcuno ha cercato di rubare qualcosa. Ma, notato da un fedele entrato all’improvviso, il giovane sospetto si è allontanato in fretta. Di questi episodi si era parlato nelle cronache pure negli anni scorsi: a Guastalla era stato trafugato il bambinello in piazza Primo Maggio, così come al presepe del Borgonuovo a Novellara oppure in centro a Reggiolo, a Casoni di Luzzara, a Quattro Castella. In quasi tutti i vari episodi, le statuine erano state poi ritrovate e rimesse al loro posto, pur se erano rimasti i danni lasciati dai vandalismi, oltre ad ammanchi di luminarie e altre attrezzature.
A questi atti vandalici da ricordare la continua avversione delle scuole, a partire dalla materna, nella realizzazione del presepe.
Come successo a Emanuele Mastrangelo che, dopo un duro braccio di ferro con l’asilo della figlia, a Roma, è riuscito a far valere il diritto di tutelare le nostre radici, la nostra identità, le nostre tradizioni, la nostra cultura.
Proprio come previsto dalla Costituzione che sì prevede la laicità dello stato ma senza rinnegare le sue radici.
Vicende e dati che rendono ancora più viva la frase di Papa Benedetto XVI “E’ urgente che sorga una nuova generazione di apostoli radicati nella parola di Cristo, capaci di rispondere alle sfide del nostro tempo e pronti a diffondere dappertutto il Vangelo” .

In questo pantano la Russia ha attuato un rafforzamento ed un innalzamento della religione cristiana come “faro” nazionale ed identitario; invece in Ucraina Zelensky sta ponendo restrizioni immani al cristianesimo ortodosso.

Vocabolario

*Immani: grandi.

*Veto: divieto.




Meloni: giunge il richiamo da Mosca

L’Italia non può essere mediatrice nel conflitto tra Mosca e Kiev, ha detto mercoledì la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova. Le osservazioni sono arrivate in risposta a una precedente iniziativa espressa dal primo ministro italiano Giorgia Meloni.

“È strano per noi ascoltare proposte di mediazione da nazioni che hanno assunto una posizione anti-russa inequivocabile e piuttosto aggressiva fin dall’inizio dell’operazione militare in Ucraina”, ha detto Zakharova in una uscita pubblicata dal ministero.

Roma è tra i Paesi che hanno apertamente sostenuto Kiev e le hanno attivamente fornito “un’ampia gamma di armi”, comprese le mine antiuomo, ha osservato la portavoce, aggiungendo che queste “azioni sconsiderate non fanno che moltiplicare il numero delle vittime, anche tra i civili ” e ritardare la fine del conflitto.

Ulteriori forniture di armi all’Ucraina potrebbero anche mettere i sostenitori della NATO di Kiev a rischio di essere direttamente coinvolti in un conflitto militare con la Russia, ha avvertito Zakharova. Tuttavia, a quanto pare, gli sponsor ucraini non hanno intenzione di interrompere le consegne e desiderano solo aumentarle, ha aggiunto.

“Alla luce della posizione guidata dall’agenda assunta dall’Italia, ovviamente non possiamo considerarla né un ‘intermediario onesto’ né un potenziale garante del processo di pace”, ha affermato il funzionario.

Germania, Italia, Austria e Giappone sono stati tra i 50 membri dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che hanno votato contro la risoluzione russa per condannare l’esaltazione del nazismo, unendosi all’opposizione annuale di Stati Uniti e Ucraina. 

Il voto finale di giovedì pomeriggio è stato di 120 favorevoli, 50 contrari e dieci astenuti. Oltre alle ex potenze dell’Asse, altri importanti “no” includevano Canada, Regno Unito, Francia, Spagna, Polonia, Cechia, Polonia, Ungheria e i tre stati baltici. Svizzera, Corea del Sud e Türkiye sono stati tra gli astenuti degni di nota.

Mosca propone la risoluzione ogni anno, esortando le Nazioni Unite a combattere la “glorificazione del nazismo, del neonazismo e di altre pratiche che contribuiscono all’escalation delle forme contemporanee di razzismo, discriminazione razziale, xenofobia e relativa intolleranza”.

La risoluzione invita i membri delle Nazioni Unite a intraprendere azioni appropriate per contrastare il revisionismo storico e la negazione dei crimini contro l’umanità commessi durante la seconda guerra mondiale.

Usa ed Ucraina hanno per anni votato  contro la risoluzione proposta dalla Russia . Sono stati gli unici “no” nel 2021, mentre altri 49 si sono astenuti, principalmente alleati di Washington. In quell’occasione, l’inviato americano  ha asserito che la risoluzione era incompatibile con le garanzie di libertà di parola del Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti e ha accusato Mosca di “narrazioni di disinformazione” sul neonazismo negli Stati baltici e in Ucraina. 

Spiegando la loro opposizione dopo il dibattito in commissione del mese scorso, gli Stati Uniti hanno  definito  la risoluzione “non uno sforzo serio per combattere il nazismo, l’antisemitismo, il razzismo o la xenofobia – che sono tutti aberranti e inaccettabili”, ma piuttosto un “vergognoso stratagemma politico” per giustificare il conflitto in Ucraina. 

La diplomatica moscovita autrice di tali affermazioni e’ la stessa che redargui’ Giletti rintuzzando coriacemente i suoi attacchi e le proprie osservazioni, al principio della guerra di Kiev, apostrofando il conduttore italiano come ingenuo ed inmaturo, in relazione alla reale situazione ucraina.

In Italia i proseliti di Meloni figurano in calo sopratutto a causa della cesura ai fondi per il reddito di cittadinanza e l’aumento del prezzo dei carburanti e dell’elettricita’, binariamento a quello delle armi e dei soldi elargiti ai profughi ucraini ed alla causa di Zelensky. Il presidente italiane si e’ resa protagonista, recentemente, di numerose dichiarazioni pubbliche su stati esteri viste come intromissioni illegittime.

Vocabolario

*Intromissioni: entrate.

*Illegittime: non conformi alla legge.

*Proseliti: sostenitori.