Musicista autistico confessioni

Di Rita Lazzaro

“Mi chiamo Thomas Ciurleo , ho 19 anni , il mio nome d’arte è Timido e sono un ragazzo con dei tratti autistici. Ho un sogno da 5 anni: diventare un rapper famoso e fare una canzone con il rapper J-Ax. Ho fatto 4 canzoni , due le ho fatte con un’associazione che si chiama ” Fondazione Aquilone Onlus ” e due le ho fatte da solo”.
Sono queste le parole del 19enne Thomas Ciurleo, in arte Timido. Thomas è un ragazzo con tratti autistici e come molteplici giovani ha un sogno: diventare un rapper.
Oggi per dare voce anche ai disabili” parleremo della sua passione, dei suoi progetti e naturalmente dei suoi sogni.
1)Thomas come e perché è nata questa passione per il rap? “La passione di cantare l’ho avuta sin da piccolo.. mi piaceva cantare e ascoltare tanta musica.. poi dai 15 anni in su ho iniziato ad ascoltare musica rap e mi sono appassionato”. 2) Oltre alla passione per la musica, cosa fai nella vita e cosa vorresti fare in futuro oltre a dedicarti alla musica?
“Per adesso non sto facendo nulla, sto a casa e l’unica passione che ho è la musica”.
3)Quali sono i tuoi progetti in corso o che intendi intraprendere per realizzare questo sogno nel mondo della musica?
“Come progetto sto scrivendo , facendomi aiutare da un’amico, una nuova canzone e mi piacerebbe poterla cantare davanti ad un pubblico e magari un domani poter fare una canzone con il mio cantante preferito , che è J-Ax”. 4) Quanto ti aiuta la musica nel vivere l’autismo?
“Mi aiuta tanto , perché mi rilassa e mi fa stare bene con me stesso”.
5)Cosa consigli ai ragazzi che, come te, vivono questa situazione?
Consiglio di appassionarsi a qualcosa che li renda felici e soddisfatti.
Si parla di inclusività, soprattutto in questi ultimi tempi. 6)Cosa ne pensi a riguardo? Le persone autistiche sono davvero trattate in modo inclusivo o c’è ancora tanto da fare? Se è così da dove si deve partire?
“Penso che ancora tanta gente non capisca realmente questo tipo di malattia , bisognerebbe farla capire di più , soprattutto partendo dalle scuole , anche perché noi non siamo diversi dagli altri e abbiamo bisogno di essere apprezzati”.
“ Bisogno di essere apprezzati” parole che graffiano soprattutto se dette da un ragazzo che vive di sogni e per i sogni che intende realizzare come quello della musica. Una forza che va oltre gli ostacoli ed i pregiudizi.
Una forza che è infatti universale a prescindere da chi ne faccia la sua ragione di vita. Un principio che uno stato di diritto dovrebbe tenere ben presente ma soprattutto applicare.

https://instagram.com/ornella_castaldi?igshid=ZDdkNTZiNTM=

Va a proposito della gestione delle disabilita’ e dell’inclusivita’ di bambini autistici, quanto il personale scolastico ed in larga parte extrascolastico, non sia formato a dovere per suffragare e fornire valore aggiunto alle persone affette da suddetta patologia, e binariamente che una dovizia di insegnanti che si avvicina all’insegnamento di sostegno lo fa in guisa scevra da passione e motivazione, bensi’ per una questione di scorrimento delle graduatorie ed anche per la necessita’ di sbarcare il lunario in base ai propri studi. Ecco la cagione che implica il dovere per lo stato di pagare in misura assolutamente maggiore, oltre ai docenti classici, quelli che si occupano della formazione e dell’inserimento di bambini e persone affette da autismo a da morbi analoghi.

Al di fuori della scuola, secondo i dati e le statistiche, lo Stato potrebbe e dovrebbe rafforzare i professionisti impegnati con disabili, persone con la sindrome di Down, persone autistiche, sgravando totalmente, sul piano economico, le famiglie in cui vivono le persone del caso, ed implementando i punti curriculari, i salari ed i servizi, alle persone che professionalmente se ne occupano. Sarebbe quest’ultima strada, una fattiva e coriacea possibilita’ di redenzione per tutti, inclusione dei disabili e degli autistici, premiazione ed incentivazione del personale medico, paramedico e scolastico.




Depressione figlio: genitore morto con lui

Di Rita Lazzaro

La volta scorsa con l’avvocato Deborah Bozzetti su Adfnews si è parlato di padri che uccidono i figli per esasperazione o vendetta, concludendo questa atroce follia con quella del suicidio ma ci sono anche padri che perdono la vita per salvare la vita dei propri figli e, a proposito di suicidio, risulta da ricordare anche quanto successo questa estate a Senigallia, nelle Marche, dove un padre di 64 anni è corso dietro il figlio di 23 anni che soffriva di depressione, ben consapevole del luogo in cui quest’ultimo si stava recando una volta uscito di casa a seguito di una lite che c’era stata tra i due: la ferrovia. Ma tale episodio come gli altri che vedono il padre artefice di delitti filiali, slatentizza il dramma della depressione latente per i giovani e delle aprioristiche difficolta’ di vita attuali per gli italiani, nella fattispecie.
Una scarpata, una barriera di metallo, non alta: basta un salto. Ed è sui binari. Il padre si arrampica ansimando, scavalca a fatica la barriera. Grida, quasi afferra per le spalle il ragazzo. ‘Andrea!’
Lui è di pochi metri avanti, la malattia lo soggioga. Se vede i fari del merci in arrivo da Bologna, non si muove. Non è così veloce un merci, potrebbe scappare. Ma no, i fari si avvicinano, il fragore delle ruote già è assordante. Il padre si butta sul figlio, a strapparlo dai binari. Sa che mancano pochi secondi: ma non calcola, non si ferma. L’impeto di salvare il figlio è più forte. La morte se li prende tutti e due, in un istante. Ebbene sì tra padri che si macchiano di figlicidio c’è anche chi perde la vita pur di salvare quella di suo figlio.
1)E anche in questo caso, il perché sorge sponte seppur dettato da ben altro sentimento, non più di orrore per il gesto commesso ma di ammirazione per un gesto che va oltre l’eroismo. Un amore che ha sì un inizio ma che non ha fine e che, purtroppo, non è stato capace di salvare il figlio da un male come la depressione e che, in questo caso, ha stroncato ben due vite. Domanda alla quale, anche in questa occasione, risponderà l’avvocato Deborah Bozzetti per l’approfondimento giornalistico di Adfnews.it, quotidiano nazionale.
“L’amore che si prova verso un figlio è smisurato e porta i genitori a fare qualsiasi cosa per tutelare quest’ultimo. In alcuni casi il limite fra tutela di se stessi e tutela del figlio si dissolve ed i genitori sono disposti a fare qualsiasi azione, anche illegale, per preservare i figli. Si arriva anche a perdere la propria vita. Nonostante ciò molti genitori non si accorgono dello stato depressivo dei figli.
I motivi sono vari, l’assenza da casa per il troppo lavoro, il fatto che il figlio lo nasconda od il fattore per cui molti genitori vogliono così bene ai figli che li ritengono “perfetti” e che quindi non possono essere depressi.
Nel momento in cui avvengono situazioni che porteranno ad una tragedia, il genitore agisce senza raziocinio e, sentendosi anche in colpa per non aver tutelato il figlio prima dell’ultimo fatto, anche perdendo la vita”. Sono tentativi disperati che molte volte finiscono in tragedie come la morte di entrambi”.
2)Perché un genitore nonostante l’affetto smisurato che ha per il figlio non riesce a sconfiggere un cancro sociale che colpisce soprattutto i giovani? “La depressione è un cancro sociale che c’è sempre stato. Tutte le persone molto intelligenti come scienziati, pittori, avvocati, medici ecc sono state affette da depressione.
Si dice che anche Leonardo Da Vinci lo era stato nonostante fosse un luminare del suo tempo.

Con il trascorrere del tempo i casi di depressione sono aumentati a dismisura.
Ci sono psichiatri che affermano che è l’intelligenza o meglio, il sapere, che hanno portato al manifestarsi del cancro.
Il conoscere i problemi e non saperli risolvere l’ha manifestato. Attualmente credo che la depressione nei giovani sia dovuta principalmente alla troppa tecnologia che li ha portati ad isolarsi e rimanere durante le ore di svago da soli davanti ad un pc, tablet, telefono ecc..
Troppe notizie anche fake su internet secondo me l’aumentano il canchero della depressione”.
3)Come e quanto la depressione può divorare l’anima e la mente da portare un figlio a mettere a rischio la vita di un genitore? “Io credo che un figlio depresso vuole mettere fine alla propria vita per salvare se stesso ed anche il genitore. I figli sanno che la depressione è come un cancro e nel tempo comincia a pensare che se non esistesse più non soffrirebbe più personalmente e la propria famiglia non avrebbe più alcun problema nell’interfacciarsi con un figlio problematico. La mente di un depresso è come quella di un malato terminale, pensa che non ci sia rimedio e via d’uscita, e che quindi la depressione possa cessare solo con la morte. Inoltre pensa che i famigliari che se ne accorgono possano a loro volta soffrire e quindi preferisce morire per preservarli.
La morte del genitore nel caso citato è stata solo involontaria per il figlio”. A proposito di famiglia e depressione, spesso i genitori, seppur attenti ,non si accorgono di nulla e si ritrovano con un figlio impiccato nella sua camera o nel venire a sapere dalle forze dell’ordine del gesto estremo commesso dal figlio. 4)Perché la famiglia nonostante attenta e presente spesso non si accorge del profondo malessere che vive il figlio? “E’ difficile comprendere attualmente i giovani ma soprattutto se sono depressi, perchè è difficile entrare nel loro “mondo isolato” e capirlo. A mio giudizio l’unico modo è quello di mantenere un dialogo con loro, non giudicarli, non imporgli obiettivi troppo elevati e cercare di comprendere i loro errori”.
5)Qualora, invece, se ne dovesse accorgere come si deve comportare per evitare l’irreparabile? “Per aiutare i propri figli è necessario rivolgersi a dei professionisti come psicologi” .
Padri che uccidono i figli ed altri che danno la vita pur di salvarli, volti diversi che portano dinamiche ed epiloghi differenti ma con lo stesso filo conduttore: il rapporto padre e figlio che può degenerare in tragedia in nome della brutalità di un padre o in nome dell’amore paterno.

https://instagram.com/ornella_castaldi?igshid=ZDdkNTZiNTM=



Anoressia: problema maschi

Di Rita Lazzaro

“Sì da per scontato che solo alle donne interessi il fisico, interessi la forma corporea, perché si dà nuovamente per scontato che la malattia riguardi il fisico, ma l’anoressia è una malattia che con il fisico si esprime, è una malattia interiore e tutti proviamo delle emozioni e dei sentimenti, sia maschi che femmine. Vorrei rivolgermi anche ai ragazzi che si sono rivisti nelle mie parole e che hanno un disturbo alimentare : non lasciatevi influenzare dagli stereotipi delle persone e della società, la vostra malattia è una malattia grave, sempre un disturbo alimentare, è sempre grave e merita aiuto. Quindi voi meritate un percorso, una guarigione, meritate di essere aiutati e meritate di essere liberi e felici”. Queste sono le parole di Francesco che, in occasione della Giornata Nazionale del Fiocchetto Lilla, dedicata ai disturbi del comportamento alimentare ha deciso di raccontare la sua storia. Una battaglia fatta di alti e bassi, di sconfitte e rivincite, di sofferenza ma soprattutto di voglia di vivere, ricominciare e darsi una seconda possibilità. Una storia fatta di paura, principalmente quella verso la propria persona: “Ho paura di me stesso perché sono riuscito veramente a distruggermi con le mie mani, sono riuscito ad assumere una dose di lassativo moltiplicato per sette. Davanti allo specchio impugnavo una forbice e mi tagliavo, vedevo il sangue scorrere sulle mie braccia e non mi fermavo senza pensare che se avessi inciso una vena sarei potuto rimanere lì, oppure quando non ho bevuto per tre giorni, provavo a razionalizzare e dirmi perché i medici mi hanno detto che posso morire e io continuo, persisto su questa strada senza volermi fermare?” Una storia fatta di sensi di colpa e immagini riflesse ben lontane da quelle reali. Il primo sintomo della malattia (anoressia) è stato il senso di colpa dopo aver mangiato. Successivamente ho iniziato a notare un ‘ immagine del mio corpo distorta, uno dei primi sintomi dell’ anoressia è proprio la dispercezione. Io sono arrivato a portare la taglia dei pantaloni 8 anni, nonostante ne avessi 18. Ma per me le mie gambe erano sempre troppo grosse, erano sempre troppo sproporzionate rispetto al mio corpo, così come il mio viso lo vedevo sempre costantemente tondo, sempre troppo gonfio, sempre troppo grosso.

https://instagram.com/ornella_castaldi?igshid=ZDdkNTZiNTM=

Una storia di autodistruzione del proprio corpo, ossessioni e fobie: “Sono comparsi i primi episodi di vomito e di restrizione alimentare, seguita dal calcolo ossessivo delle calorie. Molti alimenti sono diventati fobici. “Sono arrivato a pesarmi anche dopo aver bevuto un bicchiere d’acqua. Per ben tre giorni, purtroppo io non ho toccato acqua. Sono comparsi episodi di abbuffate e mi hanno portato anche a prendere molto peso. Ho attuato dei meccanismi ancora più atroci nei miei confronti per riperdere quel peso. Digiunare per anche 24 ore intere, stremarmi di addominali rendendo la mia colonna vertebrale un insieme di lividi”.

Una storia di continua guerra col proprio corpo perché prigioniero della propria mente, quella appena descritta: “L’ autolesionismo era collegato con l’anoressia perché una voce interiore mi diceva non sei abbastanza. Quando mi abbuffavo mi diceva sei stato un fallimento, adesso devi punirti. Quindi mi ha portato a impugnare le forbici e tagliarmi”. Vicende forti e dal sapore amaro ma che non hanno impedito a Francesco di rialzarsi:“Ho chiesto aiuto però realmente quando ho firmato la mia autodimissione. Sono uscito dal centro e ho detto :” adesso mi metto in gioco”. Rimettersi in gioco ma nella piena consapevolezza che “magari questi episodi in cui la voce potrebbe tornare, si presenteranno però io so che adesso ho tutti i mezzi necessari per affrontarla e non lasciare che si impossessi nuovamente di me”. “Difficoltà che presenta la vita e che è poi la stessa a far sì che una volta che si ripresentano si avranno i “mezzi necessari per affrontarle”. “Sono l’esempio che l’anoressia può colpire anche il genere maschile”. Parole su cui riflettere e che dimostrano come, ancora oggi, nel 2022, la società sia ancora ricca di stereotipi, nonostante la lotta per l’inclusività e la parità di genere.

1)Perché, ancora oggi, esistono questi tabù che determinano la vittima in base alla quantità anziché in base alla sua appartenenza al genere umano?

A questa domanda e alle prossime risponderà la psicologa e psicoterapeuta Sabrina Porro per Adfnews.it,http://Adfnews.it quotidiano nazionale di approfondimento ed informazione.

“Trattare il problema della salute mentale dal punto di vista delle differenze di genere è un compito arduo. Possiamo dire con certezza che le patologie psichiatriche colpiscano entrambi i sessi anche se per alcune di esse l’incidenza è maggiore in un genere rispetto all’altro, ad esempio statisticamente parlando, i disturbi d’ansia, la depressione, il disturbo ossessivo compulsivo sono registrati con più frequenza nelle donne mentre il disturbo da abuso di sostanze, il suicidio, il disturbo narcisistico di personalità sono appannaggio del genere maschile. Nonostante questa distribuzione differenziata nel genere delle varie patologie mentali, c’è da sottolineare una diversità nella gestione delle stesse da parte di entrambi i sessi; la donna infatti sembra più incline a rivolgersi al medico rispetto all’uomo. L’uomo, invece, chiede aiuto solo nel momento in cui il disagio diventa insostenibile. Difficile dire se questa differenza dipenda da una maggiore tolleranza da parte degli uomini allo stress oppure se influiscano fattori culturali che portano gli uomini a considerare i disturbi psicologici come una forma di debolezza, tale da intaccare il concetto stesso di virilità.”

2) L’anoressia quindi colpisce sia maschi che femmine ma nasce nello stesso modo e si affronta con lo stesso modus operandi o la differenza tra i sessi incide sia sulla matrice che sulle modalità di risoluzione?

” L’anoressia colpisce sia uomini che donne sebbene ci sia una netta differenza nell’epidemiologia di questo disturbo: gli uomini rappresentano il 10% di tutti i casi di anoressia nervosa. Non ci sono differenze sostanziali tra i due sessi per quanto riguarda la sintomatologia presentata e la gravità della stessa. Questa malattia per entrambi i generi comporta un’alterazione nella percezione della propria immagine corporea da cui scaturisce il bisogno di ridurre il cibo nell’intento di perdere peso. L’anoressia è spesso associata a comportamenti compensativi come il vomito autoindotto, l’esercizio fisico eccessivo e l’abuso di lassativi. Per quanto riguarda la matrice , l’Anoressia Nervosa è una malattia multifattoriale, a determinarne le cause concorrono la vulnerabilità psicologica, fattori genetici e la predisposizione familiare. A livello di cura e trattamento non vi è alcuna differenza tra i due sessi. Tuttavia nei maschi la diagnosi è più tardiva, essendo l’anoressia considerata una malattia femminile. Basti pensare che tra i criteri diagnostici è annoverata l’amenorrea cioè la scomparsa del ciclo mestruale, criterio questo che esclude la popolazione maschile, tuttavia, proprio in virtù di tale preclusione, nell’attuale versione del manuale DSM 5, l’amenorrea non rappresenta più uno dei criteri diagnostici predittivi di tale malattia. L’esordio di questa patologia nei maschi inoltre si colloca intorno ai 19 anni, quindi in età più tardiva rispetto alle donne. Un’altra differenza tra i due generi riguarda le preoccupazioni e le ansie che negli uomini sono più legate all’assenza di grasso ed alla presenza di una muscolatura pronunciata piuttosto che al controllo del peso come per le donne. L’ossessione per la crescita muscolare e l’assenza di grasso corrispondono all’attenzione delle anoressiche verso la magrezza e l’annullamento del proprio corpo. Nonostante le modalità di risoluzione siano le stesse per entrambi i sessi, la richiesta di aiuto tardiva da parte dei maschi può condurre all’insorgenza di maggiori complicazioni sia a livello fisico che psicologico rispetto alle donne.” 3) A proposito di differenze tra universo in rosa e maschile perché l’anoressia è più diffusa nel primo che nel secondo? ” L’anoressia nervosa è una patologia che colpisce maggiormente le donne come suddetto. Questa maggiore prevalenza dei DCA nella popolazione femminile è dovuta da una parte agli aspetti sociali e culturali che creano dei modelli di magrezza e di successo che la società impone attraverso i mezzi di comunicazione ed a cui la donna è più esposta. Inoltre anche gli aspetti fisiologici e biologici di natura ormonale sembrano determinare una maggiore incidenza di questa patologia nelle donne. Secondo recenti studi, gli ormoni femminili sembrano avere un ruolo importante nella regolazione della produzione di serotonina (neurotrasmettitore implicato nella regolazione dell’umore, dell’ansia e delle sensazioni di fame e sazietà). Secondo altri studi la preponderanza di questa malattia nel genere femminile è legata allo sviluppo puberale che nelle donne corrisponde ad un cambiamento delle proporzioni corporee molto più netto e repentino rispetto agli uomini”.

Francesco ha parlato di “una voce” che potrebbe tornare ma di avere comunque “mezzi necessari per affrontarla”. 4) L’anoressia come qualsiasi altro disturbo alimentare è un tunnel dal quale non si riesce mai a uscirne o c’è comunque la possibilità o magari la probabilità di rompere completamente le catene che tengono legati a questo buio? “Uscire dal tunnel dell’Anoressia e guarire è possibile seguendo dei percorsi mirati a curare il corpo e l’anima. La durata del percorso dipende dalla gravità del disturbo e delle complicanze insorte e necessita di un’equipe multidisciplinare che coinvolga sia la persona malata che i familiari. Nel 10% dei casi in occasione di anoressia grave ed in assenza di trattamento si va incontro al decesso. Nel caso in cui si interviene, la prognosi è favorevole alla guarigione. Si stima che nel 50% dei casi, adeguatamente trattati, si raggiunge un buono stato di salute, nel restante 25% dei casi può verificarsi una o più recidive. Spesso accade, come nel caso di Francesco, che quella “voce” di cui parla, non rappresenti affatto una regressione verso la patologia ma una fragilità o predisposizione soggettiva a sfogare le proprie frustrazioni con il cibo e che ciò si attivi probabilmente nei momenti o nelle situazioni di particolare stress. Il percorso terapeutico volto al riconoscimento ed alla consapevolezza delle proprie modalità disfunzionali determina una gestione sana dello stress ed impedisce le ricadute”. Sempre questo coraggioso 21enne nel raccontarsi ha detto di aver inizialmente ricercato le cause del disturbo alimentare nel bullismo “credevo che le parole della gente, le parole dei miei coetanei, soprattutto mi avessero fatto ammalare”. Considerandole alla fine solo “la goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo”.

Francesco racconta infatti che attraverso la psicoterapia ha potuto analizzare le cause interiori e le cause più profonde notando di avere una difficoltà nel saper gestire le emozioni:“difficoltà nel riconoscere, anche nel dare il nome alle emozioni, perché non sapevo come gestire la felicità, non sapevo come gestire la tristezza.. Durante l’ anoressia, le emozioni è come se non esistessero più perché quando sono felice penso di non meritare la felicità. Quando sono triste, non merito il cibo. Io non riuscivo mai a riconoscere quale emozione stessi provando, vivevo in un costante stato di apatia”. 5) In che modo si può definire la causa che porta addirittura ad avere disturbi alimentari e quali sono le altre che comportano simili problematiche? Ma soprattutto in che modo prevenirle?

“Esiste una correlazione tra bullismo e disturbi del comportamento alimentare. Il bullismo in particolare può provocare bassa autostima, isolamento sociale ed un’alterazione della propria immagine corporea. In effetti, spesso si è presi di mira per il proprio aspetto e per la propria immagine, viene così intaccata la sicurezza di sé e si rischia di non accettarsi più. La rabbia repressa determinata dagli attacchi subiti dal gruppo, si riversa verso se stessi e verso il proprio corpo e può determinare la comparsa di disturbi del comportamento alimentare e di atti autolesionistici come nel caso di Francesco. Certamente il bullismo non è stata l’unica causa ma il fattore scatenante “la goccia che ha fatto traboccare il vaso” così come è stata definita da Francesco. Quel “vaso” colmo di emozioni represse, non verbalizzate. In generale, le motivazioni che portano ad ammalarsi sono molteplici e molto più profonde e riguardano il vissuto personale e familiare e vanno elaborate all’interno di un percorso psicoterapico. I DCA, il più delle volte si collocano all’interno di dinamiche e costellazioni familiari particolari per cui è molto costruttivo ai fini della risoluzione del sintomo, programmare percorsi che coinvolgano tutti i membri della famiglia”. 6) A proposito di prevenzione, cosa dovrebbero fare la scuola, la politica, la famiglia, i media per combattere questi mali che affliggono principalmente i giovani? “Personalmente in materia di prevenzione ritengo che l’educazione alimentare nelle scuole e nelle famiglie sia uno dei segreti per contrastare l’insorgenza dei disturbi legati alla sfera alimentare. A tal proposito sarebbe auspicabile progettare campagne informative che abbiano la finalità preventiva e divulgativa. All’interno della famiglia bisognerebbe educare i giovani ad uno stile di vita sano in cui il cibo riveste un ruolo importante, a prendere contatto con le proprie emozioni siano esse positive o negative ed a comunicarle. Come è stato infatti evidenziato dalla letteratura scientifica, caratteristica psicologica delle persone affette da questa patologia è la difficoltà ad avere accesso al proprio mondo emotivo “. 7) Si è parlato di prevenzione, per quanto concerne la soluzione del problema, invece, qual è il metodo che, fino a questo momento, ha dato ottimi risultati senza alcuna recidiva e quali invece da condannare per evitare che la vittima sia doppiamente vittima?

“Per quanto riguarda i trattamenti di comprovata efficacia per l’anoressia nervosa, la terapia cognitivo comportamentale rappresenta la migliore scelta terapeutica, quest’ultima adotta strategie e strumenti specifici atti a modificare i comportamenti problematici ed a ridurre il bisogno assoluto di magrezza. In alcuni casi, può rendersi necessario il ricovero in ambiente ospedaliero per il ripristino del peso corporeo e la correzione degli squilibri elettrolitici conseguenti al digiuno prolungato. Come sottolineato in precedenza data la complessità nel trattamento dei DCA si evidenzia l’importanza di un approccio multidisciplinare che comprenda non soltanto un percorso psicoterapico individuale, un coinvolgimento da parte delle famiglie, in alcuni casi l’utilizzo di un’adeguata farmacoterapia ed il coinvolgimento di figure esperte nell’educazione alimentare.” Educazione alimentare, due parole che, accostate ma soprattutto applicate, salvano vite umane dalle loro fobie e insicurezze, rendendole così protagoniste della loro vita.




Problema infertilita’ maschile

Di Rita Lazzaro

L’infertilità maschile corrisponde a una ridotta capacità riproduttiva dell’uomo, per una insufficiente produzione di spermatozoi o per anomalie nella qualità degli spermatozoi prodotti. L’infertilità di una coppia sessualmente attiva viene accertata quando non si riesce ad ottenere una gravidanza dopo un periodo superiore a un anno di rapporti liberi e non protetti. Si parla di infertilità primaria quando l’uomo non ha mai indotto una gravidanza, di infertilità secondaria quando l’uomo ha già indotto una gravidanza precedentemente.
L’infertilità maschile interessa il 7% degli uomini e sempre di più i giovani. È una causa diffusa dell’infertilità di coppia. Rispetto al passato, oggi si ritiene che in 1 caso su 2 la difficoltà ad ottenere una gravidanza dipenda da problemi riproduttivi maschili.
1)Ma quali sono le cause dell’infertilità maschile?
A questa domanda e alle prossime risponderà la psicologa e psicoterapeuta Sabrina Porro per Adfnews quotidiano nazionale.
“Non è sempre facile identificare una causa dell’infertilità maschile, tuttavia studi recenti hanno evidenziato un aumento dei casi dovuto ad un peggioramento della qualità del liquido seminale. I dati parlano di un 33% di uomini a rischio di infertilità le cui ragioni possono essere molteplici. Inoltre, il 30% dei casi di infertilità può essere considerata idiopatica cioè non è possibile identificare una causa. Le ragioni di questo deterioramento sono probabilmente da attribuire al cambiamento dello stile di vita, tra cui alcol, stress ed inquinamento ambientale, che hanno sicuramente un peso determinante. Tra gli altri fattori annoveriamo l’uso di farmaci, la storia chirurgica, problemi genetici e malattie sistemiche. Attualmente, inoltre, le coppie arrivano all’idea di concepire un figlio in età più avanzata, quando inevitabilmente si registra un diminuzione delle capacità riproduttive che vale anche per l’uomo. L’infertilità si distingue decisamente dalla sterilità, quest’ultima riguarda l’assenza totale (azoospermia) o insufficiente (cripto-azoospermia) di spermatozoi nel liquido seminale, mentre l’infertilità comprende tutti gli altri casi di alterazione della qualità del liquido seminale (per ridotta motilità, alterazione della morfologia, DNA danneggiato). L’infertilità maschile può avere diverse cause:
Genetiche quando comportano una ridotta produzione di spermatozoi dovuta ad uno sviluppo imperfetto dei testicoli associato ad una predisposizione genetica e presente fin dalla nascita.
Criptorchidismo: mancata discesa dei testicoli nella loro sede entro il primo anno di vita.
Infezioni uro-genitali: gli stati infiammatori delle vie seminali possono danneggiare gli spermatozoi, i canali seminali e la prostata.
Varicocele: dilatazione delle vene testicolari che può danneggiare il DNA degli spermatozoi.
Malattie sessualmente trasmissibili: possono provocare infertilità.
Disfunzioni erettili: disfunzioni legate all’erezione ed all’eiaculazione.
Stili di vita: il fumo di tabacco o cannabis danneggiano il DNA degli spermatozoi, ne riducono il numero e la motilità. Altri fattori di rischio sono l’obesità, sedentarietà, cattiva alimentazione, assunzione di alcol e droghe.”
2)In che modo si può prevenire la sterilità maschile?
“È possibile prevenire l’infertilità attraverso un’adeguata campagna informativa e divulgativa finalizzata non solo ad informare sui comportamenti a rischio e condizioni patologiche, ma ad educare gli uomini alla cura del proprio corpo ed a saper cogliere precocemente i segnali che il corpo invia. La prevenzione non riguarda solo i controlli medici, è consigliato sottoporsi ad una visita andrologica in età prepubere o comunque entro i 20 anni, ma soprattutto l’adozione di uno stile di vita che riduca al minimo la possibilità di sviluppare tale patologia. A tal fine è consigliabile mettere in atto tutte quelle strategie volte al benessere, dall’educazione alimentare, a quella sessuale, ed alla conoscenza di tutti quei fattori di rischio ambientale (quali ad esempio, lo stress o gli agenti inquinanti), che possono interferire con la capacità riproduttiva maschile.”

https://instagram.com/ornella_castaldi?igshid=ZDdkNTZiNTM=

3)Quali sono invece le cure e la probabilità di esito positivo?
” Per quanto riguarda le cure, la chirurgia può risolvere in alcuni casi l’infertilità o ridurne le conseguenze come ad esempio per la diagnosi di Varicocele, che è la più frequente causa di infertilità maschile, se si interviene in età giovanile la prognosi è favorevole alla risoluzione del problema, pertanto la correzione chirurgica consente il concepimento naturale. Altre terapie efficaci prevedono l’assunzione di gonadotropine, ormoni preposti alla regolazione dell’attività di riproduzione degli organi genitali maschili; questa cura è finalizzata a stimolare la spermatogenesi. Nelle infezioni dell’apparato riproduttivo si ricorre alla somministrazione di antibiotici ed antinfiammatori. In caso di modesta alterazione della qualità dello sperma si può procedere all’inseminazione intrauterina, che consiste nell’inserimento degli spermatozoi debitamente preparati nella cavità uterina. Nelle situazioni più gravi si ricorre alla PMA (procreazione medicalmente assistita come la fecondazione in vitro (FIVET) o l’iniezione intracitoplasmatica dello spermatozoo (ICSI). Quando gli spermatozoi non sono presenti nel liquido spermatico si può ricorrere alle tecniche di prelievo degli spermatozoi in altri punti dell’apparato riproduttivo (testicolo o epididimo). Alla luce di quanto ho detto, la visita andrologica è fondamentale per prevenire o almeno intervenire in tempo su molte patologie, evitando quindi future conseguenze negative.”
4) Quali sono le conseguenze psicofisiche di un uomo che scopre di non poter essere padre?
“La diagnosi di infertilità ha diverse conseguenze psicologiche sia per l’uomo che per la donna. L’ansia, lo stress, il senso di frustrazione alla notizia della diagnosi, sono alcune delle reazioni psicologiche manifestate. Inoltre si registrano spesso vissuti depressivi, sensi di colpa, di dolore e di perdita che possono essere associati al trauma da lutto. Nella fase iniziale dell’acquisizione della diagnosi prevale lo shock, il diniego, poi successivamente si fanno strada la rabbia ed i sensi di colpa fino ad arrivare all’isolamento ed all’evitamento di situazioni che evochino il problema dell’infertilità. Per quanto riguarda le reazioni psicologiche ed emotive, queste sono simili in entrambi i sessi anche se diverso è il modo di gestirle: gli uomini, più spesso si chiudono in se stessi e con maggiore difficoltà prendono contatto con le emozioni negative connesse al problema, inoltre essendo spesso la fertilità associata alla virilità, l’incapacità riproduttiva viene vissuta come inadeguatezza sessuale e ciò determina di conseguenza, una perdita dell’autostima. Per l’uomo la scoperta della privazione del potere procreativo si traduce, in alcuni casi, in un sentimento d’inferiorità. Questo vissuto d’impotenza può generare dei comportamenti compensativi disfunzionali, intensificando ad esempio le loro conquiste femminili per ricevere una conferma della loro virilità. In altri casi gli uomini si concentrano totalmente sul lavoro nell’intento di spostare la loro capacità produttiva al livello professionale. Per quanto riguarda l’infertilità femminile, essa viene vissuta analogamente all’uomo, con sentimenti di ansia, tristezza, angoscia, sensi di colpa e di frustrazione derivanti dall’impossibilità di procreare e svolgere il ruolo di madre. La donna si sente inutile anche socialmente in quanto incapace di procreare. Tutto ciò determina nella maggior parte dei casi, una vera e propria crisi di vita che va ad intaccare l’equilibrio della coppia stessa.”
A proposito di reazione.
5)A livello psicologico che differenza c’è tra un uomo ed una donna che vengono a conoscenza della loro sterilità?
“Attualmente la maggior parte degli uomini tende a sottovalutare il problema della infertilità ed a non effettuare alcun controllo a riguardo. Questa scarsa conoscenza del fenomeno dell’infertilità maschile e della sua incidenza, è in parte da attribuire non solo alle scarse informazioni di tipo medico ma soprattutto ad una questione culturale. Gli stereotipi di genere, i media, la pressione sociale, sono i principali responsabili di questa mancanza di informazione riguardo al problema dell’infertilità maschile. Tuttavia, oggi per fortuna, assistiamo ad una maggiore apertura da parte della popolazione maschile ad affrontare il problema ed a gestirlo con più consapevolezza ricorrendo a tutte le cure mediche necessarie per la risoluzione dello stesso. Al di là dei pregiudizi legati all’infertilità maschile, in generale si configura uno scenario diverso per ciò che riguarda l’atteggiamento femminile nella cura del proprio corpo rispetto al mondo maschile. La donna manifesta una maggiore attenzione a quelle che sono le problematiche legate alla sua salute e con maggiore facilità si rivolge alle figure mediche preposte alle cure. La donna infatti, una volta ricevuta una diagnosi di infertilità, è più disposta ad affrontare le terapie e laddove non sia possibile la cura, a ricorrere alle tecniche di procreazione assistita. L’uomo invece, manifesta una maggiore ritrosia a sottoporsi alle analisi per l’individuazione del problema ed una maggiore diffidenza ad affrontare i percorsi di PMA.
Il modo più efficace per combattere gli stereotipi di genere ed i pregiudizi che ostacolano l’accesso alle cure e la soluzione al problema, è quello di favorirne la conoscenza attraverso la comunicazione sociale ed individuale”.
6)Secondo lei è un problema sottovalutato?Ma soprattutto l’Italia è ben attrezzata nell’affrontare simili situazioni, soprattutto a livello psicologico?
” In Italia si stima che la diminuzione del tasso di natalità vada di pari passo con l’aumento dei tassi di infertilità maschile. Inoltre il nostro paese è uno tra quelli europei in cui l’età media per la prima gravidanza risulta più elevata. Ciò incide sul costante aumento dell’infertilità sia maschile che femminile. Questa diminuzione della capacità riproduttiva ha determinato un incremento del numero di coppie italiane che hanno scelto di affidarsi alle tecniche di procreazione assistita. A tal riguardo l’Istituto Superiore di Sanità promuove campagne d’informazione per la prevenzione della sterilità e svolge studi e ricerche sulle cause ambientali, psicologiche e cliniche in materia di salute riproduttiva e fertilità. Inoltre, annualmente predispone una relazione al Ministero della Salute con un resoconto epidemiologico sulle tecniche di PMA per valutarne l’efficacia nella cura dell’infertilità”.

8)Cosa si dovrebbe fare per rendere questa situazione il meno pesante possibile verso chi la vive?
” Per rendere questa situazione meno pesante, le linee guida della PMA sottolineano la necessità di garantire alle coppie colpite da sterilità, un servizio di supporto psicologico e ribadiscono l’importanza di offrire loro un servizio di consulenza prima di iniziare i singoli trattamenti. La finalità del percorso è quella di attivare le risorse interne di una persona e della coppia in modo da riuscire ad affrontare le difficoltà psicologiche ed emotive che scaturiscono non solo dalla diagnosi di infertilità, ma dalla scelta del trattamento da seguire (ad esempio una PMA) e dall’eventuale fallimento di quest’ultimo.”
Sterilità: un problema non solo femminile ma che colpisce anche l’universo maschile.
Un problema quindi da non sottovalutare ma affrontare oltre ogni forma di pregiudizio.




Italia: ancora gesti folli e violenza privata

Di Rita Lazzaro

A metà ottobre, a Osnago, centro della Brianza in provincia di Lecco, l’80 enne Francesco Lantorno ha ucciso la figlia disabile, Rossana di 47 anni, e poi si è tolto la vita. Padre e figlia abitavano in una palazzina a piano terra presso Osnago.
Entrambe le salme presentavano ferite da arma da taglio.
Il padre potrebbe aver prima somministrato dei farmaci alla figlia per poi ucciderla con un coltello da cucina. La stessa arma che poi avrebbe rivolto contro di sé, togliendosi a sua volta la vita.
Saranno poi le autopsie ad indicare la successione dei fatti e le esatte cause delle morti, ma allo stato purtroppo sembra tutto abbastanza chiaro. Come il movente che ha spinto il pensionato a uccidere ed uccidersi, probabilmente il timore che col tempo, vista anche la sua avanzata età, Rossana non potesse più essere accudita.
Una tragedia che si è consumata poco dopo un’altra, anch’essa con un padre protagonista. Quella che vede il suicidio di un giovane papà che da due anni non aveva più contatti con l’amata figlia. La tragedia si è consumata poche ore dopo il suo compleanno nella casa dove viveva prima della separazione.
«Vado a festeggiare il compleanno alla festa degli Alpini di Volpiano». Sono state le ultime parole che ha detto alla madre ed alla sorella prima di mettere in piedi il piano suicida,invece di andare a brindare con le penne nere di cui faceva parte.
Il 18 ottobre ha compiuto 44 anni: «Era un uomo nel pieno della vita, senza problemi di salute, gioviale e cordiale», così la famiglia lo ricorda. Il 19 ottobre, però, solo qualche ora più tardi si è tolto la vita. Un gesto, si diceva, pensato. Meditato. Del quale ha lasciato una traccia sulle intenzioni, difficile da cogliere a priori, probabilmente qualche istante prima di farla finita: «Ti lascio questi ricordi; portali sempre nel cuore; ti amerò per sempre… Poi starò vicino anche da lontano», scriveva alle 23.24 del giorno del suo compleanno.
Da un anno il giovane padre non lavorava più e dal 2014 il suo matrimonio era finito. Ma aveva superato tutto, tranne la lontananza dalla figlia: quella era la ferita più grave all’anima che non riusciva a rimarginare. A guarire.
Dolore: questo è il filo conduttore tra le due tragedie.
Il dolore insopportabile di un padre nel non sapere come vivrà la figlia disabile quando lui non ci sarà più e il dolore sempre più soffocante di un padre che non vede la figlia da anni.
Ma ci sono anche padri indegni di questo nome come i tanti, troppi che hanno ucciso il loro stesso sangue solo per “spirito di vendetta” verso la donna che ha osato dire “basta” a una storia che, magari, era già finita da tempo.
Come successo coi casi più recenti, ad esemipio quello del giugno del 2020 quando, aLecco, Mario Bressi, un padre di 45 anni strangola i figli gemelli di 12 anni, per poi togliersi la vita. L’uomo, che è di Gessate (Milano) ed era in villeggiatura con i figli, si stava separando dalla moglie: sarebbe proprio questo il movente del delitto. “Cosa ha fatto? Cosa ha fatto?”, ha ripetuto più volte ad alta voce, Daniela Fumagalli, la madre delle piccole vittime, tra le lacrime e abbracciando alcuni amici che l’hanno raggiunta alla caserma dei carabinieri di Casargo (Lecco) per starle vicino. Vendetta contro la ex , lo stesso movente che porterà ad un’altra tragedia avvenuta nel marzo di quest’anno a Mesenzana dove un padre ha ucciso i due figli, togliendosi poi la vita.
L’uomo, 44 anni, era in fase di separazione dalla moglie. I ragazzi avevano 13 e 7 anni. “Non li rivedrai mai più”, le scrisse in un messaggio.
È stata proprio la mamma a scoprire i cadaveri dei suoi due figli, Giada di 13 anni e Alessio di 7, morti nell’appartamento del suo ormai ex marito che, presumibilmente dopo averli uccisi a coltellate, si è tolto la vita.

https://instagram.com/ornella_castaldi?igshid=ZDdkNTZiNTM=

A proposito di vendetta e omicidio\suicidio da ricordare il suicidio di Davide Paitoni.
L’uomo si è tolto la vita nella sua cella del carcere milanese di San Vittore. Il quarantenne era dietro le sbarre per l’uccisione del figlio Daniele di 7 anni, nel giorno di Capodanno.
L’ uomo sgozzò il piccolo, lasciato poi chiuso nell’armadio.
Sul corpo, un biglietto con cui confessava tutto e poi esprimeva “disprezzo” per la ex moglie, che il giorno successivo tentò di uccidere aggredendola fuori dalla sua casa di Gazzada. Paitoni registrò poi un messaggio vocale per il padre, chiedendogli di non aprire l’armadio in cui era nascosto il corpo del bimbo. Poi un disperato quanto inutile tentativo di fuga in Svizzera.
Storie diverse di padri e figli ma tutte con lo stesso epilogo anche se con moventi diversi, da quello più esasperato a quello più becero: l’infanticidio\suicidio.
Storie diverse che portano tutte alla stessa domanda: perché?
1)Cosa porta un padre a uccidere un figlio e poi uccidersi?
A questa ed alle prossime domande risponderà l’avvocato Deborah Bozzetti.
“Quello che porta un padre ad uccidere il proprio figlio o la propria figlia e poi suicidarsi è difficile da comprendere, sia sotto il punto di vista giuridico che psicologico e psichiatrico. Si può solo ipotizzare che in alcuni uomini vi sia un “attaccamento” illogico ed irrazionale verso i propri figli che li considerano come se fossero una vera e “propria parte di loro”. Solitamente questa frase viene usata metaforicamente, ma in questi casi violenti citati il loro pensiero lo crede in modo reale.
Sotto questo punto di vista, se noi pensiamo che se i figli siano parte dei padri, allora si può tentare di comprendere la loro visione.
Il padre non potrà sopravvivere senza una parte di se stesso ed è lo stesso per i figli. Sarebbero legati indissolubilmente.
Per tale ragione, se i padri vengono separati dai figli (per la loro concezione) in modo irrimediabile, nella mente dell’adulto scatta l’istinto di sopravvivenza che gli fa credere che sia meglio la morte dei figli e la propria piuttosto che il distacco fra loro che, sempre secondo la loro logica, porterebbe a pene fisiche peggiori fino alla morte celebrale”.
2)Queste tragedie si sarebbero potute o meglio dovute evitare ed in che modo?
“Non credo che tutte queste tragedie si sarebbero potute evitare.

Molti comportamenti di padri assassiniti non sono visibili o percepibili dagli altri.
Solo in alcuni casi, se si denota un’eccessiva morbosità verso il figlio, sarebbe a mio parere utile portare entrambi da uno psicologo”.
3) E’ corretto parlare di padri nella versione di Medea, visto che gran parte di loro una volta uccisi i figli si toglie la vita?
” Anche in merito alla sindrome di Medea, non tutti i casi la rispecchiano.
Rammento un caso giuridico che è diventato mediatico attualmente ancora in indagini, che sotto il mio punto di vista rispecchia questa sindrome. Si parlava di una madre che aveva ucciso la propria bambina in quanto si era separata dal marito e non riusciva a riallacciare i rapporti. Questo è il tipico caso secondo me, ma non tutti rispecchiano il fatto.
Si può anche affermare che si parla anche di follia umana”.
4) Nel suo percorso professionale le è capitato di affrontare casi simili?
” Nel mio percorso professionale mi è capitato di affrontare casi simili che non sono, per fortuna, finiti in tragedia.
Padri che affermano tali azioni non frequenti ma che le attuano no.
Un caso mi aveva davvero preoccupato, un padre di Savona allontanato dalle figli site a Monza aveva davvero pensato di suicidarsi, ma senza uccidere le figlie.
Contattato lo psichiatra si è occupato lui della vicenda.
Secondo il padre era così dipendente dalle bambine che non poteva vivere senza di esse.
Qui era lui dipendente da loro ma non il contrario. Un caso simile ma diverso”.
5) In che modo le madri che subiscono questo abominio possono affrontare un dolore che va oltre lo stesso?
“Posso dire alle madri che l’unico modo è ascoltare bene i propri figli quando parlano del periodo in cui svolgono il diritto di visita con il padre, di cercare di capire il rapporto padre-figli e nel caso di anomalie, di riferirlo al loro Avvocato od alla loro Psicologa.
In caso di tragedia mi sento di rassicurarle perchè non è causa di nessuno se la mente umana vacilla e diventa folle. Sono atti imprevedibili”.
Atti imprevedibili che lasciano attoniti , disarmati e con un profondo senso di impotenza dove la sola certezza è che a pagare sono sempre loro: piccole vite innocenti stroncate ancor prima di essere vissute da chi avrebbe dovuto proteggerle.




Depressione ed eutanasia: allarme rosso

Di Rita Lazzaro

L’11 ottobre in occasione della giornata mondiale delle malattie mentali è stata diffusa la storia di Shanti, la 23enne sopravvissuta agli attentati di Bruxelles che ha scelto l’eutanasia perché depressa.
Un tunnel che ha inizio nel 2016 fino a esserne divorata al punto da chiedere il fine vita per “sofferenza psicologica incurabile”. “È stata una vita di risate e lacrime. Me ne vado in pace”. Questo è il suo ultimo messaggio.
“Non riesco più a concentrarmi su niente, voglio solo morire”, così continuava a ripetere Shanti De Corte da quando, il 22 marzo 2016, la sua vita era cambiata radicalmente. Quel giorno la ragazza si trovava all’aeroporto di Bruxelles con i suoi compagni di scuola. Erano in gita, la loro destinazione era Roma. Poi, d’improvviso l’inferno, quando i terroristi dell’Isis fecero oltre trenta morti e trecento feriti. La 17enne rimase illesa ma soltanto fisicamente. Da quel maledetto giorno, infatti, nulla sarà più come prima.
Shanti passerà sei anni tra ricoveri e antidepressivi, fino a undici pillole al giorno. “Non provo più niente, sono un fantasma”, scriveva sui social, arrivando addirittura a tentare il suicidio nel 2018 e nel 2020, per poi concludere con la richiesta di eutanasia, approvata all’inizio di quest’anno, da due neuropsichiatri.
In Belgio, infatti, l’accesso al fine vita è consentito ai pazienti a cui viene riconosciuta una “sofferenza psicologica costante, insopportabile e incurabile”.
Così Shanti si è spenta il 7 maggio scorso, a ventitré anni, circondata dall’affetto della sua famiglia. “È stata una vita di risate e lacrime, fino all’ultimo giorno. Ho amato e mi è stato concesso di sapere cos’è il vero amore. Me ne vado in pace. Sappiate che già mi mancate”, sono state le sue ultime parole, affidate a un post su Facebook. La mamma della ragazza, la signora Marielle, ha detto al canale belga VRT che, da quel giorno del 2016, “Shanti si era spezzata e non era più riuscita a rimettere insieme i pezzi. Non si sentiva sicura da nessuna parte. Non poteva sopportare di trovarsi in luoghi con altre persone, aveva continui attacchi di panico”.
Il caso è balzato agli onori della cronaca dopo un servizio trasmesso dalla rete televisiva belga Rtbf. L’emittente ha ricostruito la vicenda di Shanti, chiamando in causa il dottor Paul Deltenre, neurologo dell’ospedale universitario Brugmann che ha contestato l’approvazione della richiesta di suicidio assistito della 23enne, sostenendo che le fossero state offerte altre opzioni terapeutiche. La procura di Anversa ha aperto un’inchiesta sui fatti ma ha poi chiuso il fascicolo, concludendo che il protocollo per il fine vita era stato rispettato.
I contenuti trasmessi da Rtbf hanno generato dibattito nel Paese. Immediata la reazione della famiglia di Shanti, che in un comunicato ha fatto sapere di avere “riserve sul rispetto della deontologia e dell’etica. Inoltre, la relazione contiene diversi errori fondamentali”. I parenti hanno anche chiesto di tutelare la loro privacy e la loro tranquillità. Gli autori della rete hanno risposto che rispettano la posizione dei familiari della giovane e che comprendono la delicatezza della loro storia. “Tuttavia – hanno sottolineato – il nostro team ha cercato più volte di contattarli per intervistarli ed ascoltare la loro storia, ma non ha mai ricevuto risposta. Sono state presentate diverse situazioni ed ognuna è stata esaminata da più angolazioni per spiegare ciò che è accaduto nel modo più accurato, senza giudicare o prendere posizioni contrarie”.
Una storia che ricorda quella di i Noa Pothoven, la ragazza olandese di 17 anni che, una volta che le era stata negata l’eutanasia legale, aveva smesso di bere, mangiare , lasciandosi così morire a casa, sotto lo sguardo dei familiari condiscendenti.
Il motivo di questa condotta estrema?
Una profonda depressione, dovuta alle continue violenze sessuali subite da bambina. Infatti la ragazza, di fronte al rifiuto di sottoporsi ad ulteriori trattamenti per superare la sua depressione, è stata rimandata a casa dove dall’inizio di giugno del 2019 aveva cominciato a rifiutare cibo e liquidi. I genitori, d’accordo con i medici, hanno acconsentito a non ricorrere all’alimentazione forzata. Noa ha usato i suoi ultimi giorni per salutare la famiglia e le persone a lei care. “L’amore è lasciar andare, come in questo caso”.
Traumi che portano la vittima a vivere una depressione così devastante da sembrare “incurabile” e da rendere la morte la sola soluzione possibile.

1)Ma è davvero così?Davvero la depressione è un male incurabile da legittimare la scelta di porre fine alla propria esistenza?
A queste domande e alle prossime, risponderà il professore Carlo Vivaldi Forti:
“A differenza di talune malattie organiche, quelle psichiche non possono mai essere considerate irreversibili. Nella mia esperienza di terapeuta ho assistito a diverse guarigioni “miracolose” , inclusa la ripresa di motilità in persone paralizzate per cause psicologiche, e pure la regressione di gravissime forme schizo-paranoidi, ritenute incurabili dalla psichiatria organicista. La depressione può essere validamente curata con terapie psico-farmacologiche associate, mentre la semplice terapia farmacologica può talvolta non produrre risultati. E’ evidente che il depresso non vede prospettive di guarigione, altrimenti sarebbe di fatto già guarito, ma le persone che lo circondano , familiari , medici od educatori che siano, non dovrebbero mai uniformarsi al punto di vista del malato”.
2) Cosa pensa delle scelte prese da queste due giovani vite, della reazione dei loro familiari ma soprattutto qual è la sua posizione sull’eutanasia legale nei confronti di chi versa in simili condizioni?
“La posizione dei familiari era certo motivata dall’amore e dalla pena, e per questo sono comprensibili. Lo sono meno quelle dei medici e degli specialisti, i quali non dovrebbero mai arrendersi di fronte a una malattia psichica, perché in tal modo ammettono l’impotenza della scienza psichiatrica. Una possibilità di cambiamento esiste sempre e bisogna agevolarla in tutti i modi possibili”.
3)Come si può sconfiggere la depressione anche nei casi in cui sembra un male “incurabile”?
“Lo dirò in tre parole: amore, comprensione, perseveranza”.
4)Quali sono i passi avanti fatti, quali invece gli errori, ma soprattutto quanto ancora c’è da fare per combattere questa piaga umana e sociale?
“La farmacologia ha fatto indiscutibili passi avanti, negli ultimi decenni, ma la strada migliore per curare una malattia dell’anima ( in greco psiche) è mediante l’anima stessa, cioè un’adeguata psicoterapia”.
“Amore, comprensione, perseveranza” valori , a quante pare, sempre più sostituiti dalla mentalità dello scarto che sancisce l’inizio della fine dell’umanità.

A tal proposito vengono slatentizzati dati paradossali che vedono l’Occidente come sede concentrata di patologie depressive, di stress, di frustrazione, di consumo connesso a droghe e psicofarmaci. I giovani risultano in larga percentuale alienati, gravati da problemi di incomunicabilita’ con famiglie, amici e parenti, nonche’ vittime, come gli adulti, di una deriva di analfabetismo funzionale, nichilismo, secolarizzazione davvero esiziali, secondo coloro che analizzano la situazione. Fioccano i movimenti virtuali e fisici che anelano un fermo al sistema di vita occidentale improntato sulla produttivita’ parossistica, sulla socialita’ limitata dall’eccesso dei social, dai rapporti sessuali ed amorosi fugaci, dall’estrema lontananza da Dio e del suo indiretto dileggio, promossi da fette immani di media, intellettuali, testi accademici e personalita’. Per i cattolici il suicidio si conferma peccato e consentire ad un giovane di porlo in atto, si mostra come una iattura nonche’ la sconfitta della avanzatissima societa’ occidentale, con il corollario di deontologia, umanita’ e religiosita’.

Vocabolario

*Slatentizzati: posti fuori.

*Immani: grandi.

*Fugaci: non duraturi ne’ forti.




Padri carnefici: allarme pedofilia

Di Rita Lazzaro

L’avvocato Deborah Bozzetti aveva gia’ parlato del duplice fenomeno che coinvolge i padri carnefici ed i padri eroi.
Da quelli che si macchiano di figlicidio a quelli che, invece, danno la vita per i figli.
Oggi emerge, in modo saltuario, un altro volto dei padri poco risaltato, ossia quello del padre orco rendendo così il figlio un agnello sacrificale nelle mani di altri orchi come avvenuto lo scorso ottobre quando la polizia ha fermato un 33enne romano per violenza sessuale aggravata ai danni di sua figlia, detenzione, produzione e cessione di materiale pedopornografico e per adescamento di minorenne. L’uomo riprendeva con il cellulare gli abusi sulla figlia di 2 anni e poi inviava foto e filmati ai frequentatori di una comunità pedofila. Per di più gli elementi raccolti durante la perquisizione informatica, secondo quanto fa sapere la polizia, hanno anche fatto emergere “un adescamento sessuale che l’indagato stava conducendo nei confronti di un ragazzino di quindici anni”. “Sia i poliziotti che i magistrati che hanno operato per la risoluzione del caso sono rimasti particolarmente colpiti dalla gravità delle condotte e dalla natura disumana dei crimini compiuti dal genitore-orco – osserva la polizia – non era infatti mai capitato, fino a quel momento, di accertare, in un singolo caso criminale, tutti i possibili reati previsti dal Codice penale in materia di sfruttamento dei minorenni per la produzione di materiale pornografico.
1) E anche in questi casi la domanda è inevitabile: perché?
Come può un padre macchiarsi di un crimine così indegno che segnerà la vita di sua figlia per sempre?
Quesiti ai quali cerchera’ di rispondere l’avvocato Deborah Bozzetti per Adfnews.it, quotidiano nazionale: “Secondo il mio parere un padre che si macchia di tali reati è inspiegabile. Nessuna scienza né giuridica né psichiatrica potrà dare un quadro chiaro di cosa succede nel cervello di tale uomo.
Cercando di analizzare un caso così delicato nel modo più oggettivo possibile, il padre probabilmente ha delle devianze sessuali animate da patologie psichiatriche. Credo che agire nei confronti della figlia e nei confronti di un altro minore sia dovuto al fatto che lui stesso abbia dovuto affrontare una situazione analoga in passato oppure una vicenda che l’ha scioccato psicologicamente. Presumo che lui in realtà volesse punire qui bambini. La punizione legata alla sua perversione sessuale l’ha portato a fare quelle innominabili azioni”.
2) A proposito di ferite, quelle delle piccole vittime come questa bambina e non solo, in che modo si possono curare per far sì che questi traumi non incidano sulla loro vita o lo facciano nel modo minore possibile?
” A parer mio, il ricordo sarà difficile da cancellare.
C’è una scienza che dice che prima dei 6 anni i ricordi sono frammentati e quasi assenti. Se fosse davvero così la minore non ricorderebbe e sarebbe, a mio giudizio, la cosa migliore.
In caso del ricordo invece l’unica cura è un percorso da uno psichiatra che possa aiutarla”.
3) C’è differenza tra uno stupro commesso da un padre e quello commesso da un altro componente della famiglia o tra quello commesso da un padre e un estraneo?
“Giuridicamente essere un parente comporta un aggravante. Sotto il profilo psicologico credo che all’inizio un minore, se si tratta di padre e parente, lo possa prendere come un gioco; invece padre ed estraneo come un obbligo.
Purtroppo ritengo che la presenza del padre in entrambi i casi non modifichi di molto le due situazioni agghiaccianti .
4) C’è un modo per capire anche chi generalmente risulta insospettabile soprattutto agli occhi di chi gli sta vicino?
“Secondo me un padre che si macchia di tali reati è inspiegabile. Azioni innominabili ma il cui reato è un nome da scalfire nelle menti e sulla carta affinchè si possano prevenire e combattere simili abomini soprattutto se commessi nei luoghi che dovrebbero essere il nido di piccoli indifesi.

Va pero’ infine ammesso quanto vi sia una coriacea, coordinata, potente ed infiltrata nei principali ambiti civili, fitta rete pedofila transnazionale che sta all’apice delle sparizioni di bambini e minori, in Italia come all’estero, il che viene denunciato in guisa altalenante ma grosso modo occulta, da uomini di stato, giornalisti disallineati ed intellettuali emarginati, da molti anni. Bambini e minori trafficati, scevri di documenti e registrazioni, risultano il piu’ grande e nefando scandalo della modernita’. Il problema e’ enfatizzato dal fatto che chi denuncia tali reati incorre in oblivione, omicidio, gambizzazioni, licenziamenti ed atti intimidatori spregevoli. Frattanto il mercato della pedopornografia risulta in continua espansione, e recentemente a tal proposito, non sono molto sporadiche le accuse di sacrifici umani e rituali satanici che coinvolgono proprio i minori ed i bambini. In appendice a quanto scritto sulle motivazioni che attengono gli stupri sui bambini e sui minori, si leva anche il grido di boicottati prelati che accusano l’esistenza di un circolo ctonio mondiale di satanisti che godono di molteplici adepti, i quali coprono e corroborano i propri atti e le loro velleita’; tale rete di satanismo mondiale pare trovarsi ai gangli del mero sistema del rapimento dei minori e della pedopornografia.

C’e’ un nutrito gruppo di cattolici praticanti e prelati fino al livello medio che, in ambito pedopornografia, rapimento minori ed uccisione degli stessi, allude al numero elevatissimo di possessioni sataniche presso persone e personaggi insospettabili, binariamente a gente comune in seguito categorizzata come folle, malata, od improvvisamente persa di senno. Insomma, per concludere, oltre ai drammi personali, ai traumi, alle sostanze psicotrope che alternano e manipolano le percezioni e le azioni, esistono in relazione alle violenze, agli omicidi contro minori nonche’ alla pedofilia, pedopornografia, le manie di cricche sataniche intersecate, e possessioni spirituali e psicologiche di effettiva matrice diabolica.

Vocabolario

*Matrice: forma.

*Binariamente: allo stesso tempo.

*Psicotrope: di droghe che influenzano pensieri ed azioni.




Cure ormonali: accusa indiretta di omosessualita’ e caos in Usa

Pupi Avati si e’ lasciato ad una dichiarazione su Lucio Dalla: “Gli piacevano le donne, innamorato pazzo della sorella dell’impresario Cremonini. La mamma gli diede degli ormoni e cambiò”.

In una intervista al quotidiano torinese de La Stampa e rilanciata dal Fatto quotidiano, Avati ha ricordato le cure ormonali ricevute a forza quando Lucio era bambino. “Nato apparentemente con una penalizzazione fisica esplicita, che ha gettato nel panico la madre. Ma Lucio Dalla era pazzo per le donne, solo che tutto cambio’ dopo una cura ormonale. Il regista Pupi Avati, amico del cantautore bolognese morto undici anni fa, e che il prossimo 4 marzo avrebbe compiuto 80 anni, sta facendo discutere nella savana dialogica che scatena i social ed il web. Avati ha ricordato le cure ormonali ricevute a forza quando Lucio era giovanissimo. La mamma gli fece fare una cura a base di ormoni che in qualche modo lo avrebbe compromesso. Non solo non è cresciuto, ma ad un certo punto è diventato ispido, peloso. Non so se questo mutamento abbia avuto riflessi in ambito sessuale”, ha abbozzato l’autore di Zeder. “A Lucio, nel periodo in cui suonavamo insieme, piacevano moltissimo le ragazze, era un assatanato delle donne, era innamorato pazzo della sorella dell’impresario Cremonini, l’attrazione per il mondo femminile era in lui presente e inequivocabile, – ha proseguito – poi, ad un certo punto della sua vita, qualcosa cambiò”. Avati ricorda di aver trasferito questa storia in un personaggio del film Regalo di Natale: “Ho raccontato il cambiamento di sessualità di uno degli amici. Lucio chiuse tutti i rapporti con le persone del prima, credo anche un po’ per quella ragione. È un problema che tutti noi amici abbiamo vissuto, io di sicuro. Con Lucio, in tutta la mia vita, ho parlato di qualunque cosa, tranne che di questo aspetto. Mai”. Annuncio, questo, che si pone sull’abbrivio di critiche contemporanee a certi prodotti medici volti a raggiungere nuovi risultati in campo estetico e curativo, come gli ormoni ed i sieri vaccinali, e fanno il paio ai provvedimenti che sferzano e scuotono gli Usa, dal punto di vista della critica e dell’azione giuridica: il bando ai permessi medici e scolastici, in alcuni stati conservatori, dei finanziamenti per la cultura trangender per i trattamenti relativi la transizione sessuale dei minorenni, e l’apodittica recriminazione del fermo agli insegnamenti sulla teoria critica della razza; mentre viene suffragata, dai trumpiani, la teoria sulla diffusione di disforia sessuale che caratterizzano molteplici minorenni, ma che non coincide necessariamente con la omosessualita’ e con la bisessualita’.

Mashable, periodico statunitense, rammenta che: una corposa teoria accademica degli anni ’70 non si fa strada tra le notizie a caso. Negli ultimi mesi i repubblicani  hanno presentato decine di proposte di legge a livello statale, che cercano di limitare ciò che i docenti possono o non possono insegnare in relazione ad argomenti “divisivi”, molti dei quali hanno a che fare con la razza. Il linguaggio delle proposte di legge varia leggermente, ma la maggior parte sembra animata, soprattutto, da una preoccupazione crescente tra i conservatori per la “teoria critica della razza”, che i leader repubblicani usano come un termine polivalente per descrivere ogni accenno alla razza od al razzismo in ambito accademico od istituzionale.

Ad oggi, almeno cinque stati ( Oklahoma, Texas,Idaho, Iowa e Tennessee) hanno approvato leggi che si propongono di limitare la discussione in classe di quella che definiscono “teoria critica della razza”. Ed il panico tra i conservatori trascende i confini nazionali. Anche il Senato australiano ha votato a favore dell’eliminazione dai programmi scolastici nazionali della teoria critica della razza. Negli Stati Uniti, i leader repubblicani si sono particolarmente infuriati per la concezione che la teoria insegni in maniera indiretta, agli studenti bianchi, che hanno in sé una forma innata di razzismo e che dovrebbero sentirsi in colpa.

Tutto questo chiasso, oggi, influirà in maniera pesante su quello che verrà insegnato a scuola, su chi vincerà le prossime elezioni, e più in generale sugli scontri culturali – quindi, ecco quello che c’è da sapere su queste tre semplici parole che al momento sono dominanti su Twitter, nei titoli dei giornali e nei consigli scolastici.

Tanto per cominciare, non è una cosa che verrebbe mai insegnata alla scuola materna, nonostante i ripetuti sforzi per proibirla nelle scuole, dall’asilo alle superiori, dice la dottoressa Khiara Bridges, professoressa di legge a UC Berkeley e autrice del libro Critical Race Theory: A Primer.

“La teoria critica della razza è una teoria giuridica nata nelle facoltà di legge negli anni ’70 e ’80”, spiega. È stata la risposta a quelli che erano percepiti come i fallimenti, ovvi, aggiungerei, del Civil Rights Act del 1964”. In quegli anni erano appena state approvate leggi importanti con l’intento di garantire una qualche forma di uguaglianza figlia del Civil Rights Act – eppure le disuguaglianze razziali continuavano a dilagare. Un gruppo di giuristi, tra cui Derrick Bell e Kimberlé Crenshaw – che allora era una sua studentessa ed in seguito avrebbe coniato il termine  “intersezionalita'” in riferimento al modo in cui identità come razza e genere si sovrappongono – si chiedeva il perché di questo fallimento. La teoria critica della razza è nata per rispondere a quella domanda, spiega Bridges. Come quadro di riferimento, si concentra spesso sull’idea che il razzismo sia sistemico e fondamentalmente radicato nel sistema legale. Mentre la questione del genere sessuale, trova proseliti tra i conservatori che rimangono perentori nell’affermare quanto vi fossero unicamente due generi sessuali, estromettendo da essi il macrocosmo transessualista. Cio’ e’ dimostrato dalla scienza, inoltre i seguaci di Trump esortano ad ammettere pubblicamente che, per quanto una persona eterosessuale possa diventare omosessuale, anche una persona omosessuale puo’ scoprirsi eterosessuale.

Vocabolario

*Perentori: fermi, fortemente decisi.

*Abbrivio: percorso iniziato.

*Apodittica: molto forte.




Autismo in Italia: terrore futuro

Di Rita Lazzaro

In Italia, si stima 1 bambino su 77 (età 7-9 anni) presenti un disturbo dello spettro autistico con una prevalenza maggiore nei maschi: i maschi sono 4,4 volte in più rispetto alle femmine. Dati che però non consistono in semplici numeri ma che racchiudono storie di uomini, donne, bambini e dei loro cari. Come quella di Jacopo un ragazzo di 16 anni affetto di autismo non verbale.
“Ci siamo arresi alla scuola parentale. E’ una sconfitta del sistema, prima ancora che nostra, ma sempre sconfitta è. Tenerlo a casa per proteggerlo dalla scuola, con molta, molta amarezza, ma ci siamo giocati pezzi di salute e di benessere psichico troppo importanti in questi anni.
Brindiamo idealmente al sistema scolastico inclusivo “più bello del mondo” ma noi ci siamo arresi. In bocca al lupo a chi resiste”. Sono queste le parole di rabbia ma anche sconforto, indignazione ma anche amarezza, con cui Maria Grazia Fiore, la madre di Jacopo, ha raccontato la storia del figlio e della famiglia in un post pubblicato sul suo profilo Facebook il 15 settembre. Maria Grazia che, per tentare di trovare una soluzione di continuità per suo figlio, ha mandato a sue spese la sua educatrice domiciliare a scuola per affiancare gli insegnanti di sostegno e gli educatori. Neanche questo è servito, dato che Jacopo non solo non è stato supportato come doveva, ma anche perché è stato isolato in un’aula di sostegno ed allontanato dai suoi compagni di classe. Episodi, questi, che hanno inevitabilmente minato il benessere del ragazzo e della stessa famiglia.
“La verità è che il sistema scolastico della scuola autorizza di fatto una discriminazione nel momento stesso in cui manca un’assistenza specializzata”.

“Nel nostro caso specifico, nella scuola che frequentava Jacopo, nessuno sapeva cosa fare e nessuno aveva voglia di imparare“.
L’assenza di personale qualificato, inoltre, ha generato conseguenze inevitabili sulla gestione familiare. “Mi hanno sempre chiamato ad ogni ora del giorno, proprio per la loro incapacità di gestione, perché non sapevano che fare. Lo hanno fatto anche mentre ero a lavoro, togliendomi di fatto il mio diritto al lavoro, perché devo pensare a mio figlio, perché devo essere disponibile sempre per lui”. Per questo motivo la donna si è trovata costretta a prendersi un anno sabbatico per gestire l’intera situazione. La stessa Maria Grazia ha confermato che ci sono dirigenti che non sanno cos’è un GLO, che non lo organizzano, e dall’altra parte docenti che non vi partecipano. La consapevolezza di questo, unita a tutto ciò che è successo, ha fatto perdere immediatamente fiducia nella scuola, proprio quel luogo che dovrebbe prendersi cura di tutti i ragazzi.
“In tutti questi anni, ho voluto per Jacopo solo la normalità, una cosa che a tutti gli altri viene concessa. Ed a noi no. Perché la verità è che al momento l’inclusione è un guscio vuoto. Ma continuerò la mia battaglia, per me stessa e anche per gli altri”.
Vicenda gastione autismo che porta a chiedersi se l’Italia sia o meno uno stato sociale e a cosa sia dovuta questa situazione di abbandono materiale e degrado morale verso chi versa in queste difficoltà. Ipocrisia? Incapacità? Disumanità? A questa domanda ed alle prossime risponderà per Adfnews quotidiano nazionale Mara d’ Intimo, madre di due bimbi che rientrano nello Spettro Autistico. Il più grande ha avuto la prima diagnosi verso i 4 anni, mentre quello più piccolo verso i 18 mesi.
“Le leggi a tutela delle persone con disabilità ci sono. Possiamo ricordare la più importante: la L104/92. Essa garantisce anche il diritto allo studio delle persone con disabilità e si può menzionare pure la L517/77 che ha introdotto la figura dell’insegnante di sostegno e finalmente l’abolizione delle classi differenziali. Da quegli anni in poi, ci sono stati sicuramente tanti cambiamenti, ma non si è fatto ancora abbastanza. Ho lavorato con insegnanti di sostegno che non hanno competenze specifiche, soprattutto nell’autismo. Spesso non sapevano come gestire il bambino, quando si trovava in uno stato di notevole frustrazione. Poche sono le figure veramente specializzate. Il problema è dato dal fatto che molti insegnanti si mettono nella graduatoria per il sostegno, non per passione, ma per inserirsi nel mondo scolastico. Pochi seguono corsi di aggiornamento e di notevole formazione. Io stessa ho lavorato tanto a casa con i miei figli, cercando di eliminare o quantomeno ridurre i comportamenti problema, anche per evitare telefonate sul posto di lavoro. Però sono fiduciosa e spero nella presenza di un team scolastico specializzato, soprattutto per l’autismo, che è il disturbo più frequente. Ciascun bambino ha il diritto di andare a scuola e ciò vale anche per un bambino affetto da disabilità, che deve essere integrato e incluso nel gruppo classe”.
2) Quali sono i provvedimenti da adottare affinché la legge sia applicata? E quali sono invece le riforme a cui ricorrere per migliorare la vita e quindi salvaguardare la dignità di chi versa in queste condizioni?

“La legge in varie parti dell’Italia viene anche applicata. Laddove non vi è applicazione, bisogna esigerla. Non esiste che un bambino o ragazzo autistico non può frequentare la scuola, perchè non ci sono persone specializzate. Il problema è proprio questo. A mio avviso, il percorso del TFA di un anno non è sufficiente. Bisogna fare corsi di aggiornamento, di formazione. Molte persone che si affacciano sul mondo della disabilità hanno lauree che non hanno nulla a che fare con la pedagogia, psicologia, didattica speciale, ecc. E purtroppo, le persone veramente specializzate sono poche e non si riescono a coprire i posti”.
I suoi figli hanno iniziato le terapie riabilitative in un centro specifico,per questo motivo con la prima diagnosi ha deciso di cambiare la vita. Infatti si è rimessa a studiare e si è formata anche nell’ABA.
Nel frattempo ha fatto diverse esperienze, non solo nel mondo scolastico, ma anche nei domicili delle famiglie. Ha anche lavorato con i servizi sociali ed ho visto il mondo della comunità per minori protetti.
3)Sulla base della sua esperienza personale e professionale, oltre alla responsabilità politica, qual è invece la responsabilità di noi consociati e di conseguenza come e quanto deve cambiare la nostra mentalità, cultura e quindi modus vivendi per evitare le vergogne umane su riportate?
“E’ necessario sensibilizzare tutta la società, ma non solo nel giorno della disabilità, ma tutti i giorni e, soprattutto, attuare progetti di inclusione ed integrazioni di queste persone che vanno anche oltre l’ambiente scolastico”
Sensibilizzare società e politica non solo nella data che lo stabilisce ma in ogni singolo giorno dell’anno perché la dignità umana non è a giorni ma sine die.

In relazione all’autismo si levano grida di allarme ed invettive da parte di internauti ed alcuni ricercatori sedicenti indipendenti, che focalizzano l’aumento sesquipedale dell’autismo nel mondo, rimarcando la sua correlazione con i vaccini, binariamente al caso. Per corroborare tali tesi sono disponibili video e fascicoli giuridici che dimostrano la correlazione, nella fattispecie di tre fratelli americani tutti autistici, tra i vaccini tradizionali e tale patologia. I genitori americani citati, esponevano il diniego dei magistrati interpellati, dei media e dello stato, a condannare le societa’ farmaceutiche produttrici di suddetti farmaci. La coppia americana, reclamando giustizia per se’ e prole, si e’ vista dapprima licenziata ed in seguito emarginata.

Secondo gli esperti sovraccitati, alla luce del tasso di aumento degli ammalati di autismo, in meno di un secolo circa un quarto dell’umanita’ sara’ disabile, ed un altro quarto improduttiva o sottoproduttiva a causa del sostegno obligato verso il famigliare autistico.




Diritti dei minori: Corte europea condanna Italia

Di Rita Lazzaro

La Cedu – Corte Europea dei diritti umani – ha condannato per la settima volta (la quarta solo nel 2022) lo Stato italiano per non aver tutelato una donna vittima di violenza ed i suoi figli. Dopo la condanna del 2017 per il caso Talpis su ricorso di Titti Carrano, avvocata D.i.Re donne in rete contro la violenza (che ha ottenuto anche la condanna per il caso J.L. contro Italia nel 2021), i tribunali italiani sono stati condannati ancora, e ancora, e ancora, e ancora, e ancora, e ancora.
Una sequela di condanne inflitte all’Italia (Talpis, V.C., J.L., Landi, De Giorgi, M.S ed ora I.M.).
Questa volta, la condanna per la violazione dell’articolo 8 della Convenzione Europea dei diritti umani che sancisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare, è arrivata su ricorso – I.M contro Italia ( 25426/20) – dell’ avvocata Rossella Benedetti di Differenza Donna. È il caso di una donna accolta al Centro antiviolenza di Villa Pamphili. Il tribunale aveva disposto incontri tra i figli minori della donna e il padre, nonostante questo fosse stato denunciato per maltrattamenti e continuasse ad avere comportamenti violenti persino durante le visite.
I giudici della Cedu hanno rilevato un pregiudizio per la donna e i minori: “Lo Stato italiano ha mancato al suo dovere di protezione e assistenza durante gli incontri organizzati con il padre dei bambini, tossicodipendente e alcolista, accusato di abusi e minacce durante le visite. Il caso – continua la Cedu – riguarda anche la decisione dei tribunali nazionali italiani di sospendere la responsabilità genitoriale della madre considerata come un genitore ostile agli incontri con il padre, in quanto rifiutava di essere presente a causa delle violenze commesse dall’uomo”. La Corte ha rilevato che “le riunioni tenutesi a partire dal 2015 hanno turbato l’equilibrio psicologico ed emotivo dei bambini costretti ad incontrare il padre in condizioni che non garantivano un ambiente protettivo. Il loro miglior interesse è stato, quindi, trascurato con l’essere costretti ad incontri che si svolgevano in tali condizioni”.
I giudici del tribunale di Roma, secondo la Cedu, “non hanno esaminato attentamente la situazione della madre e dei figli e hanno deciso di sospenderle la potestà genitoriale sulla base di un presunto comportamento ostile agli incontri padre-figli ed all’esercizio di co-genitorialità, senza tener conto di tutti gli elementi rilevanti del caso” e senza fornire “ragioni sufficienti e pertinenti per giustificare la decisione di sospendere la responsabilità genitoriale per il periodo compreso tra maggio 2016 e maggio 2019″.
Ora i due bambini otterranno un risarcimento di 30mila euro a testa dallo Stato italiano.

Una condanna che dimostra l’ennesimo fallimento della giustizia italiana nella tutela sia del minore ma anche della bigenitorialità, visto che la sua pessima salvaguardia e quindi applicazione, ne comporta la perdita di credibilità.
Come succede nel caso di donne che svelano violenze e chiedono aiuto allo Stato per poi ritrovarsi dentro un processo kafkiano, soprattutto in tribunali del nord e nord-est che da vittime le trasforma in colpevoli e devono intraprendere lunghe, estenuanti e costose battaglie legali per difendersi anche da Ctu – che le accusano di essere alienanti, ostative, malevole, lesive, sulla base di tesi condannate dalla stessa Cassazione: definizioni come la Pas (sindrome da alienazione parentale) .
Vicende dove paradossalmente in uno stato in difesa delle donne, le stesse si ritrovano coi figli sbattuti in case famiglia rischiando addirittura di perdere la responsabilità genitoriale.
Qualcosa, a quanto pare, non torna.
1)Di conseguenza cosa fare per evitare situazioni lunari ed altre condanne da parte della CEDU?
A questa domanda ed alle prossime risponderà l’avvocato Miraglia del foro di Madrid per Adfnews, quotidiano italiano nazionale.
“Prima di tutto secondo me la violenza contro le donne è un fenomeno strutturale mondiale che non conosce confini sociali economici e nazionali. E’ una violazione dei diritti umani e rimane in larga misura impunita. Fatta questa premessa penso che l’attuazione a pieno regime della convenzione di Istanbul, specificatamente dell’articolo 31 e dell’art. 51 della stessa, non possa non avvenire attraverso un cambiamento di coscienza culturale che deve toccare in primo luogo la magistratura e successivamente degli operatori sociali delle forze dell’ordine. Sarebbe importante garantire una giusta preparazione, soprattutto alle forze di polizia che intervengono in caso di necessità nelle famiglie o quando devono ricevere le denunce da parte delle donne. Purtroppo, per esperienza professionale, posso affermare che spesso e volentieri c’è una superficialità grave nel considerare le denunce di maltrattamento in famiglia, a meno che non si sia di fronte ad un caso grave ed eclatante. D’altro canto però bisogna anche stare attenti alle false denunce che a volte vengono presentate strumentalmente rispetto alla richiesta di affidamento del figlio o del mantenimento. Ecco perché abbiamo bisogno di professionisti preparati che possano garantire la veridicità dei fatti denunciati e che gli stessi non siano puramente strumentali. D’altra parte è inconcepibile ricevere risposte del tipo “finchè non c’è una fragranza di reato non si può intervenire”. Inoltre, pur condividendo l’importanza e la necessità, come punto di riferimento, dei centri anti violenza, bisognerebbe non tralasciare quei pochissimi casi in cui gli stessi centri anti violenza prendono ad incarico delle situazioni solo ed esclusivamente per fini economici e quindi di fatto aiutando a strumentalizzare delle vicende che potrebbero essere risolte con il buon senso e con l’opportuno sostegno alle parti”.
In questi paradossi giuridici e drammi umani si parla di violazione dell’articolo 31 della Convenzione di Istanbul in tema di custodia dei figli, diritti di visita e sicurezza che impone di prendere in considerazione gli episodi di violenza nel momento di determinare i diritti di visita, e chiede che siano adottate le misure legislative necessarie per garantire che “l’esercizio dei diritti di visita o di custodia non comprometta i diritti e la sicurezza della vittima o dei bambini”.
2) Perché l’italia si macchia con tanto di recidiva di questa disposizione?
“A mio parere, per quanto riguarda le condanne europee, penso che il problema sia molto più profondo rispetto alla “semplice condanna”. Intanto per evitare alcune tragedie bisognerebbe garantire al genitore/genitori dei percorsi certi, progetti certi, decisioni provate e comprovate.
Oggi spesso accade che i genitori si sentano impotenti rispetto alle decisioni dei tribunali o rispetto alle iniziative dei servizi sociali. Spesso vengono trattati con distacco, con poca comprensione e con fare accusatorio.
Io sono profondamente sostenitore del rispetto dell’individuo, sono un profondo sostenitore del dialogo.
Certo, sono conscio che il dialogo ed il rispetto non risolvano completamente siffatti problemi, ma rispettare i genitori che subiscono un provvedimento autoritativo, spiegare che cosa devono fare i genitori per migliorarsi, fare in modo che gli stessi comprendano le loro difficoltà, fare in modo che gli stessi si sentano considerati dall’autorità giudiziaria e dai vari professionisti, è già un ottimo risultato.
Uno dei problemi oggi, in queste dinamiche, che poi comportano le sopracitate condanne della Cedu, sono basate proprio sul fatto che molte decisioni sono promanate senza prove oggettive, alcune volte da veri e propri presupposti ideologici e altre volte dall’interpretazione sbagliata di norme precise”.
A proposito di violazioni della Convenzione di Istanbul si parla anche della non applicazione dell’art 51 che prevede sia preso in considerazione “il rischio di letalità, la gravità della situazione ed il pericolo di reiterazione” dei comportamenti violenti, per garantire “un quadro coordinato di sicurezza e di sostegno”. Un triste esempio lo si ha col caso di Federico Barakat il bambino di 8 anni ucciso dal padre violento durante una visita protetta. Il padre gli aveva prima sparato a bruciapelo con una pistola , finendolo con 37 coltellate. Poi si tolse la vita. Purtroppo non è un caso isolato, infatti sono trascorsi 3 anni dall’assassinio di Gloria Danho per mano del padre che aveva voluto tenere la bambina con sè.
Un padre che anziché proteggere la figlia le toglie la vita con due coltellate per vendicarsi dell’ex compagna che aveva “osato” lasciarlo.
Abomini che si sarebbero potuti e dovuti evitare.

3) Fatta questa tragica premessa e con tanto di sentenza di condanna da parte della CEDU, l’Italia si macchierà ancora di recidiva o sarà finalmente la svolta per cambiare pagina con meno vittime e più giustizia? Ma soprattutto in che modo sarà possibile e da dove si deve partire o meglio ripartire?
“Il bambino è stato ucciso dal padre per farla pagare all’ex. Premetto che non conosco la vicenda, ma sono certo che questo evento sia il risultato finale di una situazione sicuramente caratterizzata da pressapochismo e superficialità a meno che non siamo di fronte ad un atto d’impeto; è impensabile che una situazione del genere non abbia dato delle avvisaglie in precedenza. Piuttosto, bisognerebbe indagare sulle competenze di chi, per anni forse, si è occupato del caso e perché non sia stato in grado di prevenire una tragedia simile. Questo ci aggancia ad un altro problema che spesso, nella nostra nazione, viene sottovalutato. Quello della preparazione ed aggiornamento costante. Una delle cose più condivisibili dal nuovo governo, naturalmente dal mio punto di vista, è il riferimento al merito. E’ inutile nasconderci che molte situazioni sono caratterizzate dal clientelismo, dall’amicizia e dalla mancata formazione. Bisognerebbe garantire che gli operatori siano preparati, competenti e meritevoli. E’ inutile sottolineare che molti professionisti, oggi, sono sottopagati, catapultati senza esperienza in situazioni gravi, con poca preparazione, con poca professionalità ma che operano in base alle proprie ideologie non garantendo l’oggettività dei fatti.
Concludendo, per ottenere meno condanne dalla corte europea, abbiamo bisogno di operatori preparati, relazioni oggettive, tribunali che garantiscano il rispetto della legge ed il rispetto dell’individualità”.
“Operatori preparati, relazioni oggettive, tribunali che garantiscano il rispetto della legge e rispetto dell’individualità”: strumenti che, a quanto pare, l’Italia si ostina a tralasciare, trascurando così i diritti fondamenti dei minori come il diritto alla vita, alla dignità ed alla sicurezza.