Gianmarco Landi su bugie e politica

Il giornaliasta ed analista dissidente Landi, titola un editoriale su Telegram intitolato: “GREAT PUTTANATE FOR SMALL CERVEL” che recita cosi’:

Il Great Reset per impoverire e sfoltire le società occidentali, si poggia sulla confusione ingenerata con tecniche di psicologia di massa all’interno di milioni di scatole craniche di basso pregio. Mi riferisco a quei micro cervelli pieni di virus politically correct, e che sono perciò disabilitati nel senso di intelligere la realtà perché, ad esempio, incapaci di leggere 10 righe mantenendo l’attenzione. La capacità di elaborare pensieri in essere in questi cervelli imballati, è pregiudicata dall’uso compulsivo di etichette e concetti banali, come “No Vax” o “è Scienza”, cioè steccati alla forza di ragionamento logico. Questi limiti al ricorso alla logica, sono preconfezionati dall’alto dal mainstream come i prodotti alimentari insani di certe multinazionali, allo scopo di non farci porre domande e farci ‘cucinare’ risposte genuine in proprio.

Il trucco di base dei manipolatori operanti nei media mainstream per rispondere ai comandi delle élite di Davos, é quello di riuscire ad avvelenare dei concetti logici, anche semplici, con suggestive puttanate, badando a mantenere un fondo di verità da tutti comunque riconoscibile. Tuttavia alla fine il fondo di verità nulla ha a che spartire con la sostanza di tutto il bibitone propinato.

Un esempio di bibitone avvelenato è quello della Green Economy, cioè un cocktail di cazzate funzionali a confondere gli imbecilli. Esso mischia il global warming per cause antropiche, una colossale balla, con l’inquinamento sic et simpliciter, che costituisce il fondo di verità. La stessa linea psico manipolatoria è stata usata per inscenare la situazione di pandemia covid. Il canovaccio è questo: si prende un fondo di verità neutro e lo si condisce di sapori con menzogne propagate ad arte, con il risultato di spacciare consapevolezze errate totalmente avvelenate, per verità apodittiche, magari pure dall’apparente e vistoso carattere ‘scientifico’.

L’elite di Davos è mossa in tutto ciò dai fini di realizzazione di una società mondiale piramidale governata da un unico vertice, e perciò essa ha agito promuovendo, di soppiatto e non con la forza, come fece tra gli anni 20 e 40 del secolo scorso, un sistema politico oppressivo e dittatoriale. Nel 2020 è stato utilizzato il pretesto sanitario, nel 1920 si usò il pretesto della minaccia bolscevica e della rivoluzione privativa della proprietà privata, che in effetti sussisteva, ma il problema era stato originato da questa élite prima che Stalin, un leader molto diverso da Lenin, si rivoltasse contro, dopo una prima alleanza con Hitler. La storia, infatti, si ripete ciclicamente nei concetti, ma non certo nelle apparenze, le quali differiscono grandemente da un’epoca ad un’altra.

La fuffa propinata dai media mainstream delle emissioni di CO2 che causerebbero il riscaldamento globale per motivo antropico (cioè causata dalle attività economiche umane) è stata sovrapposta all’inquinamento ambientale, problema che in effetti sussiste, ma esso è sortito per il 90 percento dalla Cina. Occorre solo un lampo di lucidità per capire che tutti i presupposti a monte dell’orizzonte di depauperamento di benessere materiale e democratico, sono partoriti nella stessa culla di un comunismo orwelliano, un modello di società illiberale e non democratica. Non vi salta agli occhi che i problemi e le soluzioni hanno la medesima culla? Obbedire a tutto ciò significa sottomettere le Libertà Occidentali alla tirannide della pan-demenza creata dal Chinavirus del laboratorio di Wuhan, e significa impoverirci sempre di più seguendo un programma di autoflagellazioni economiche per assecondare i totem della green-demenza, cioè le divinità pagano-sataniste sotto cui queste élite, a sangue più freddo del nostro, vogliono sottometterci per realizzare il Great Reset. Qui si contrappongono gli interessi di un manipolo di potere intersecato con una pletora di funzionari di ogni ramo e livello, in grado di controllare e censurare tutto, nella cortina di una pnl illimitata. Ci sono innumerevoli prove e mezze prove a certificare gli assunti del Landi, tuttavia verita’ apodittiche e documenti consultabili latitano. Frattampo si stanzia in un agone di informazione straniante, con un dato oggettivo: la ricattabilita’ di ognuno dai padroni della societa’ che figurano quelli delle banche centrali e delle banche commerciali.




La Pnl in politica, commercio, psicoterapia e nei media

LA PROGRAMMAZIONE NEUROLINGUISTICA NEL PROCESSO DI UNIFICAZIONE EUROPEA: DA “CE LO CHIEDE L’EUROPA” A “CI VUOLE PIU’ EUROPA”
Dal c.d. “metamodello” della PNL è tratta la cosiddetta “assenza di indice referenziale”. Non facciamoci spaventare dalle parolone perché è una faccenda molto semplice. Si può dire che una frase è carente dell’indice referenziale quando manca la specificazione del soggetto a cui il verbo si riferisce o del suo destinatario. Oppure quel soggetto è talmente generico da essere pressoché evanescente.
L’assenza di indice referenziale rientra nella categoria delle cosiddette “cancellazioni” che si verificano quando qualcuno dice e non dice, ma soprattutto non dice. Cioè nasconde – di proposito o suo malgrado, per malizia o per ingenuità – pezzi piccoli o grandi della sua mappa del mondo e, più in particolare, pezzi che riguardano il protagonista di un’azione, l’ideatore di un pensiero o il responsabile di una omissione o di una dichiarazione.
Si tratta di un problema che ci tocca tutti da vicino, chi più chi meno, per il semplice fatto che siamo esseri umani non perfetti, ma solo perfettibili. E quindi il nostro bagaglio linguistico non è mai ampio a sufficienza da esprimere tutta la gamma delle emozioni, delle teorie, delle impressioni, dei giudizi, delle valutazioni, delle considerazioni che ci passano per la testa. E così, brandelli di “verità”, cioè di cose che abbiamo in mente e che consideriamo vere, valide, giuste, si perdono per strada.
Per esempio: “Bisogna volersi bene”. Chi deve voler bene? E a chi? Oppure pensiamo al caso in cui una proposizione esprime un giudizio di valore generico con il “si” passivante: “Si dice che ci vorrebbe più attenzione”. Chi lo dice? Ci vorrebbe per chi? Chi dovrebbe prestare più attenzione? O, ancora, l’indice referenziale può essere anziché eluso, semplicemente spostato. Pensate a quei casi in cui qualcuno vi apostrofa così: “Come lei ben sa”, oppure: “Come tu mi insegni”. Come fai a dire che io lo so? In che senso io te lo insegno? Quando te lo avrei insegnato? Sapere che si è in presenza di una cancellazione o di uno spostamento di indice referenziale ci consente di “stanare” facilmente certe formule retoriche manipolatorie come quelle testé richiamate. E ciò attraverso l’uso – ormai l’abbiamo capito – delle domande di precisione.
Per riassumere, anche in questo caso, come in tutti gli altri in cui il metamodello funge da rimedio, ci troviamo di fronte a una forma di linguaggio vago, poco preciso, nebuloso.
Ovviamente, se ci muoviamo in una logica di “Milton Model” tali omissioni possono essere volute dal parlante. Nel caso di uno psicoterapeuta, si tratterà di una scelta deliberata e a tutto beneficio della salute mentale del proprio paziente. Quindi a fin di bene.
Ma non è necessario essere professionisti o cultori della psicologia per capire come funziona la faccenda e per farne uso, alla bisogna. Pensate all’ipotesi in cui volete far prendere consapevolezza a un amico di un suo limite, o di una sua mancanza o di una sua carenza su cui sarebbe opportuno che lui lavorasse. Prescindiamo ovviamente dalle ragioni di tale esigenza e andiamo al sodo.
Un conto è che voi gli diciate: “Tu devi svegliarti prima la mattina se vuoi cominciare a combinare qualcosa di buono”. Un altro conto è che togliate dalla frase l’indice referenziale (in questo caso la seconda persona singolare: “Tu”) e che magari sostituiate il modo verbale imperativo (“Tu devi”) con un meno impegnativo condizionale. L’invito potrebbe suonare così: “Ci si dovrebbe svegliare prima la mattina se si vuole combinare qualcosa di buono”.
La seconda opzione ha molte più probabilità di essere presa in considerazione, e magari addirittura accettata, dal vostro interlocutore perché aggira le sue difese. Ogniqualvolta mettiamo in campo l’identità di una persona suggerendole o addirittura “imponendole” qualcosa, è molto facile provocare un’alzata di scudi da parte sua. È tipico della natura umana: si chiamano meccanismi difensivi.
Ma se lo stesso consiglio o invito viene reso meno “personale”, cancellando o spostando l’indice referenziale ecco che il messaggio cambia, diventa più morbido, meno perentorio, più generico e quindi molto più agevolmente digeribile.
Accanto all’assenza di indice referenziale, dobbiamo qui occuparci (per poter poi spiegare due caratteristici tormentoni europeisti) di un’altra categoria studiata dal metamodello della PNL e appartenente non alle “cancellazioni”, ma alle “generalizzazioni”.
Ci riferiamo agli operatori modali di necessità, volontà, possibilità. Tali espressioni, o predicati verbali, indicano che bisogna, si può o si deve fare qualcosa. Pensate a frasi tipo: “Ci vorrebbe più amore”. Oppure: “Devo proprio andare, ora”. O ancora: “Non posso permettermelo”. In tutte queste circostanze, l’enunciante (colui che parla) spesso non è davvero cosciente del motivo per cui dovrebbe, vorrebbe o potrebbe fare o non fare una certa cosa. Per cui la domanda di precisione giusta da porgli sarebbe, rispettivamente: “In che senso ci vorrebbe più amore, chi lo vorrebbe?”; oppure: “Chi ti obbliga ad andar via proprio ora?”; o ancora: “Perché non puoi permettertelo, chi te lo impedisce?”.
Ebbene, come in tutti gli altri casi, anche queste lacune del linguaggio possono essere di due tipi: involontarie o volute. Nella prima ipotesi, si tratta semplicemente di una incapacità (di cui tutti spesso rimaniamo vittime) di riferire in maniera adeguata e precisa le nostre idee e i nostri stati d’animo. L’antidoto sono, come sempre, le domande di precisione. E infatti tali domande vengono insegnate nei corsi di formazione e applicate nella terapia cognitivo-comportamentale proprio per consentire ai discenti, o ai pazienti, di apprendere e usare un metodo efficace per comunicare con se stessi e con gli altri.
Ma pure la “lacuna” del linguaggio (o “violazione”, per usare il gergo piennellistico) connessa agli operatori modali può essere usata intenzionalmente, con finalità di persuasione (a fin di bene o a fin di male). Non dimentichiamoci che Bandler e Grinder, i fondatori della PNL, ricavarono molte delle loro interessanti scoperte (divenute poi un vero e proprio metodo) dall’esame e dallo studio delle modalità con cui alcuni grandi terapeuti, come Virgina Satir e Fritz Perls e altri, comunicavano e interagivano con i loro pazienti.
Uno di essi, come anticipato in precedenza, era Milton H. Erikson, specializzato nell’impiego di tecniche di induzione ipnotica. Erikson, in particolare, usava tutte le principali forme di generalizzazione, distorsione e cancellazione. Insomma, si serviva dell’imprecisione del linguaggio per curare gli stati ansiosi e i disagi psichici dei soggetti analizzati.
Erikson lo faceva con l’obiettivo di guarire, evidentemente, ma cosa accadrebbe se questa stessa potentissima tecnica venisse impiegata per altri scopi? Per esempio, per vendere prodotti commerciali oppure per condizionare e manipolare la pubblica opinione? Anche questa è una domanda di precisione e conoscete da soli la risposta.
Tali tecniche vengono regolarmente impiegate a tutti i livelli, per condizionare la mente altrui: la pubblicità, i notiziari, i discorsi dei politici ne sono letteralmente infarciti. Usare le cancellazioni, le distorsioni o le generalizzazioni – cioè rendere vaghe le proprie affermazioni – consente di aggirare le resistenze e le barriere razionali che, altrimenti, potrebbero entrare in funzione se le stesse affermazioni fossero meglio esplicitate, spiegate, documentate. Come sempre, l’unico modo per difendersi da un’arma letale è conoscerne il funzionamento così da essere in grado di smascherare chi la usa nel momento esatto in cui lo fa.
Nel caso dell’Unione europea e della implementazione progressiva del Grande Sogno comunitario ci sono alcune frasi ripetute come dei mantra, a ogni livello del dibattito pubblico e delle chiacchiere private, ed entrate nel novero delle espressioni idiomatiche tipo l’indimenticabile: “Piove, governo ladro!”.
Ne prenderemo in esame due perché più significative delle altre e anche perché più che sufficienti per farsi un’idea della loro portata condizionante e manipolatoria. Entrambe possono essere catalogate nella classe detta “assenza di indice referenziale”. E la prima contiene anche un operatore modale di volontà. Eccole: “Ci vuole più Europa” e “Ce lo chiede l’Europa”.
In ambedue, in verità, troviamo anche una fallacia semantica, o di ambiguità (di cui ci occuperemo più approfonditamente nel primo capitolo della terza parte del libro) e cioè la parola “Europa”. Che cosa significa “Europa”? Unione europea? Istituzioni condivise? Partecipazione popolare? Regole comuni? Sentimento patriottico continentale? L’uso di un termine equivoco ha il vantaggio di non prendere partito per nessuna delle potenziali alternative semantiche. Con il beneficio di prestarsi a essere assimilato da un numero molto più nutrito di destinatari. Ciascuno attribuirà a quel concetto così vago (il nomen Europa) il senso che più gli aggrada. In effetti, fateci caso, “Europa” è anche una nominalizzazione…
Partiamo dalla assenza di indice referenziale: “Ce lo chiede l’Europa”. Chi esattamente lo chiede, e a chi? A noi? Ce lo chiede la Commissione? Il Parlamento? Il Consiglio della UE? La Corte di Giustizia? Il Consiglio Europeo? I singoli partner? I popoli europei? Non è dato saperlo. Così come non è dato sapere con quale atto: un regolamento? Una direttiva? Un parere?
Il risultato è che siamo indotti – noi tutti, bombardati quasi quotidianamente dallo slogan in questione – a dare per acquisito, e quindi assodato e non discutibile, che da qualche parte, in qualche modo, con le forme evidentemente dovute (e che non abbiamo il tempo di approfondire, ma bisogna pur fidarsi), l’Europa pretenda da noi quella data cosa. “E allora dov’è il problema?”, potremmo concludere: dopotutto, l’Europa siamo noi. Si tratta di uno straordinario vettore di propaganda con la precisa funzione di impedirci di pensare, ragionare, porre domande.
Conta solo il fatto che lo chiede l’Europa e quindi bisogna mettersi sull’attenti ed eseguire. Perché il presupposto non esplicitato, ma subliminale, di tale formula è: c’è poco da dibattere, una volta “capito” che “ce lo chiede l’Europa”.
Siccome l’Europa è, in sé e per sé, un concetto generico di valenza squisitamente ed esclusivamente positiva, tutto quanto promana dall’Europa va accettato e portato a termine; in primis i suoi desideri: se ce lo chiede, è per il nostro bene, come quando i padri confessori di un tempo dicevano alle nostre nonne: “Gesù lo vuole”.Nel caso dell’altra enunciazione (“Ci vuole più Europa”), su cui torneremo più diffusamente nel prossimo capitolo, troviamo la consueta fallacia semantica di equivocazione (“Europa”) accompagnata da un operatore modale di volontà (“Ci vuole”) e da un’assenza di indice referenziale (quel “ci” generico dietro cui è arduo sapere chi si nasconda) e persino da un comparativo mancante (“più Europa”, ma rispetto a cosa?) di cui parleremo sempre più avanti.
Sarà il caso di rinfrescare l’insegnamento del grande filosofo del Novecento, Martin Heidegger, il quale ci metteva in guardia contro il chiacchiericcio banale e alienante caratterizzato dal “si dice”, “si fa”, eccetera. Il “si” passivante, così come il “ci” alienante della frase in esame, serve a persuaderci che siamo in presenza di una necessità universale. Il fatto di omettere l’indice referenziale non ci obbliga a confrontarci con la “voce del padrone” (il che dovrebbe farci suonare un allarme).
“Ci vuole” e basta, cos’altro c’è da sapere e da scoprire? Se “ci vuole” significa che siamo tutti d’accordo, che è un dato di realtà, la polaroid di uno stato d’animo, anzi di un “bisogno”, collettivo. Ma quando è stata espressa questa “volontà”? Lo vogliamo davvero? Lo vogliamo o lo “dobbiamo” fare, questo “surplus” di Europa? Sono due cose molto diverse. E proprio indagando sull’operatore modale di volontà con le domande di precisione si scopre che, sotto sotto, non c’è, né c’era mai stata alcuna volontà reale; nostra, perlomeno. Forse una volontà di qualcun altro. Ma allora fioccano altre domande di precisione: chi è costui? O chi sono costoro? Chi davvero “vuole” più Europa, e perché?
Tali quesiti dovrebbero essere “pane quotidiano” in una democrazia quale si vanta di essere la nostra: fondata, per l’appunto, sulla “volontà” popolare. Ecco perché l’utilizzo di un operatore modale di volontà accoppiato a una fallacia semantica di equivocazione e a un’assenza di indice referenziale diventa un formidabile strumento di condizionamento delle masse. Soprattutto nel momento in cui, grazie anche all’utilizzo di quell’autentica arma non convenzionale rappresentata dai media generalisti (il cosiddetto mainstream), queste frasi, coniate con un preciso intento filoeuropeista, diventano moneta corrente del discorso collettivo.
Una volta entrate “a regime”, e interiorizzate, esse camminano con le loro gambe e, proprio grazie alla fumosità e alla genericità assoluta che le contraddistingue, possono essere usate da tutti, in qualsiasi contesto, senza particolari avvertenze. Sono dei veri e propri “virus cognitivo-comportamentali”, dei malware direbbe un esperto informatico, in grado di inquinare irrimediabilmente le coscienze e la comunicazione interpersonale e politica in senso lato.
Francesco Carraro
www.francescocarraro.com