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Problema  infanticidi ed amore disfunzionale: esempi negativi e virtuosi

Feb 19 2023

Problema  infanticidi ed amore disfunzionale: esempi negativi e virtuosi

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Di Rita Lazzaro

Annamaria Franzoni, Veronica Panarello,Elena Del Pozzo, Alessia Pifferi. Quattro donne, quattro madri, con storie e vite diverse ma tutte con un filo conduttore che le unisce, quello di essersi macchiate di figlicidio. Le medee moderne le si potrebbero definire.nSamuele Lorenzi, è lui la vittima di Anna Maria Franzoni. Un bimbo di tre anni, ucciso nella villetta di famiglia a Montroz, frazione di Cogne, in Valle d’Aosta il 30 gennaio del 2002. L’autopsia ha stabilito come causa del decesso ci sono almeno diciassette colpi sferrati con un corpo contundente. Il piccolo è stato trovato morto nel lettone dei genitori e alcune lievi ferite sulle mani fecero supporre un estremo tentativo di difesa. Nel 2008 la Corte suprema di Cassazione ha riconosciuto colpevole del delitto la madre Annamaria Franzoni,condannata a 30 anni ma la donna si è proclamata sempre innocente indicando come colpevole un vicino di casa.

Elena Del Pozzo è lei la piccola vittima della madre, Martina Patti. Una bambina di quasi 5 anni, uccisa il 13 giugno dalla madre a Catania. Il figlicidio si sarebbe compiuto in poco più di un’ora dopo che la donna ha prelevato la figlia all’asilo.

Diana, la piccola vittima della madre Alessia Pifferi. Una bimba di un anno e mezzo che è morta di stenti nella sua casa a Milano: la piccola è stata abbandonata per sei giorni dalla madre Alessia Pifferi. Il consumo di psicofarmaci in Europa ed America sono aumentati in maniera esponenziale nell’ultimo quindicennio, e cio’ slantentizza una recrudescenza di psicosi, livore, instabilita’, disorientamento, in tutti i soggetti coinvolti da leggeri od importanti malesseri. Le madri non eludono le forme di rammarico, insoddisfazione, precarieta’ e di ignoranza, ormai inveterate nella societa’ contemporanea. Una prima parziale relazione dell’autopsia sostiene che il cuore di Diana ha smesso di battere a causa di un deterioramento dovuto all’assenza di cibo ed acqua. Nello stomaco della piccola sarebbero stati trovati resti di un materiale che sembrerebbe essere identico a quello trovato sotto al cuscino poggiato sul lettino in cui si trovava la bambina. Su quel materiale sono stati svolti alcuni test di cui si aspetta l’esito. La bambina potrebbe quindi aver preso a morsi il cuscino, forse nel tentativo di sfamarsi. Dagli esami tossicologici risulta, invece, che alla bimba sono state somministrati tranquillanti come benzodiazepine. Storie diverse con epiloghi diversi eppure con gli stessi protagonisti e per questo motivo la domanda su come e perché una madre possa macchiarsi di un crimine contro natura come un figlicidio, diventa più pressante.Domanda alla quale risponderà la dott.ssa Maria Pia Turiello, Criminologa forense, Mediatrice familiare, Direttore operativo della Fondazione Bocconi Business School e responsabile del Dipartimento Ricerca Educativa dell’Università Internazionale per la Pace ONU sede Roma. “Una madre assassina, nella propria infanzia, probabilmente ha sviluppato uno stile di attaccamento insicuro o di tipo disorganizzato con la propria madre. Ciò però non significa che una donna o una bambina con attaccamento insicuro è o sarà una madre assassina. Comunque si tratta di madri che non hanno messo in atto un progetto omicidiario preordinato, ma che avevano intenzione di usare violenza fisica nei confronti del figlio. Spesso queste madri presentano disturbi di personalità, scarsa intelligenza, aspetti depressivi, facilità ad agire impulsivamente, irritabilità di base.

Per rispondere alla domanda, parliamo di quattro donne molto differenti tra loro anche se hanno commesso lo stesso crimine. La Franzoni ha agito in preda ad un dolo d’impeto incontenibile ma poi si è bloccata e non ha occultato il cadavere, anzi ha cercato di comprendere cosa fosse accaduto al figlio. Alla Franzoni il blackout fu scatenato, da quello che è stato riportato, dal pianto del bambino scaturendo una rabbia incontenibile. Non dimentichiamoci che la mattina il marito della Franzoni aveva chiamato il 118 perché la moglie lamentava un malessere generale, quindi quel pianto unito allo stress già presente scaturirono una reazione violenta. La stessa rabbia (unico elemento che accomuna le due donne) che mosse la mano assassina della Panariello quando Loris si rifiutò di andare a scuola: con quel rifiuto Loris stravolse i programmi della Panariello che da qualche giorno era nervosa con il figlioletto perché aveva scoperto la relazione della mamma con il nonno e voleva dirlo al padre. La Panariello però aveva nel suo passato una famiglia complicata, povera, molto diversa dalla situazione familiare della Franzoni, alla luce di un marito presente, che corrobora maggiormente la coppia unita. La Panariello è risultata una persona capace d’intendere e di volere che ricordava perfettamente l’omicidio del figlio e cercava di depistare le indagini con mille bugie, con  le bugie  che sono state una costante nella sua vita. La Panariello ha avuto la lucidità di occultare il corpo del figlioletto gettandolo nel canale.

Di infanticidio e occultamento di cadavere si è trattato anche per Martina Patti (unica similitudine con la Panariello) che ha ucciso la piccola Elena Del Pozzo per vendicarsi del suo ex e padre della piccola. Era gelosa del rapporto che i due avevano e del fatto che lui si fosse riaccompagnato. La bambina era colpevole anche di nutrire affetto per un’altra donna. E così, dopo aver inscenato un rapimento, l’ha portata in un campo e l’ha uccisa con più di 10 coltellate. Poi l’ha sepolta.

In alcuni casi la madre può uccidere il figlio per torti reali, o presunti, subiti dal marito. Con l’uccisione del figlio la madre cerca di arrecare così un dispiacere al proprio compagno. Questa dinamica è nota sotto il nome della “Sindrome di Medea”. Queste madri vendicative presentano in genere disturbi di personalità con aspetti aggressivi, comportamenti impulsivi, tendenze suicidarie e frequenti ricoveri in ospedale psichiatrico. Inoltre le loro relazioni con i compagni sono spesso ostili, caotiche. Infine queste madri tendono ad utilizzare il figlio come un oggetto inanimato, una sorta di arma vendicativa contro il proprio compagno.

Per Alessia Pifferi la causa dell’infanticidio è totalmente diversa. La piccola Diana era un peso, arrivato a rovinare la sua vita. Lei voleva essere libera e di certo la figlioletta non era la sua priorità. Doveva trovare un uomo con cui trascorrere il resto della vita e farsi mantenere visto che era disoccupata. Qui il fattore è stato la noncuranza.

Si tratta di madri che non sono in grado di affrontare la loro funzione materna nel provvedere alle necessità fondamentali e vitali del bambino. Queste madri, per ignoranza, incapacità personale, insicurezza, scelta deliberata, sono delle madri che non riescono più ad ascoltare e far fronte ai bisogni del neonato, ma cominciano a vivere le esigenze del figlio come qualcosa di strano, di minaccioso, di estraneo che complica e “rovina” in modo drammatico la loro vita. A volte quest’incapacità di adottare un atteggiamento materno maturo e responsabile si accompagna alla sparizione vera e propria di quella “sollecitudine primaria e ansiosa” (Scherrer, 1974), utile alla gestione e protezione del bambino”. 2) Questi crimini efferati si sarebbero potuti o meglio dovuti evitare e in che modo? “La prevenzione in casi drammatici come il figlicidio materno riveste un ruolo fondamentale. Cercare di anticipare i comportamenti omicidi o semplicemente gli stati di sofferenza a cui una madre può andare incontro durante la maternità potrebbe salvare la vita di un bambino. Per poter fare prevenzione è necessario sapere innanzi tutto quale comportamento vogliamo evitare e quali sono i segnali premonitori, cioè i fattori di rischio. La letteratura riporta diversi studi in cui si è cercato di fornire un quadro degli aspetti che fanno rientrare una madre in una condizione di rischio e che dovrebbe destare attenzione e allarme sia nella società che nei servizi di salute mentale. I fattori di rischio sono caratteristiche, condizioni, segnali e circostanze ambientali associate a un’elevata probabilità che si manifesti un determinato target. La fonte del rischio può essere individuale, come le caratteristiche demografiche della madre, familiare, cioè legata alle caratteristiche o alle interazioni tra i membri della propria famiglia d’origine, e infine situazionale, associata alle circostanze immediate al fatto. Ovviamente esistono anche dei fattori protettivi, cioè un qualsiasi fattore di rischio mancante, un suo opposto oppure un giusto mezzo tra due estremi di un aspetto.

Sicuramente il figlicidio materno è un evento multifattoriale, cioè è determinato da diverse cause, che potremmo chiamare concause, perché un singolo fattore di rischio non comporta necessariamente un atto omicida verso il figlio: solo la presenza congiunta di diversi fattori rende possibile il suo verificarsi. Inoltre, non possiamo considerare i fattori indipendenti tra loro.

Ogni vicenda ha le proprie dinamiche e peculiarità. Ogni madre aveva il proprio vissuto e il proprio movente. Potremmo aggiungere: ognuna di queste donne aveva delle problematiche differenti. La comprensione dei fattori che creano i presupposti di una instabilità psichica ed emotiva, alla base del figlicidio, è un passaggio obbligato. Al riguardo si possono distinguere due ordini di fattori: sociali e psicologici, analizzarli e prendere in carico le donne”. 3) A proposito di prevenzione come si possono evitare simili tragedie agendo sia sul piano giuridico che medico ma anche politico e socioculturale? “La responsabilità è sia delle istituzioni sia della società. Ma oltre agli agiti delle madri, non è possibile che nessuna istituzione abbia mai ritenuto opportune delle verifiche dopo alcune avvisaglie (come nel caso della Pifferi) in nessuno di questi casi analizzati. Gli assistenti sociali sappiamo che non possono agire per conto proprio  ma fare delle indagini e un loro intervento è necessario quando ci sono segnalazioni. Dobbiamo capire che l’intervento di chiunque può essere fondamentale e aiutare chi sta chiedendo bisogno in silenzio. C’è la necessità di riscoprire il vivere in società prestando maggiore attenzione al prossimo, anche quando la vita ci costringe alla frenesia del quotidiano. Ogni bambino ucciso è un fallimento per le Istituzioni ma anche per la collettività”. 4) Cosa pensa della condanna all’ergastolo per chi si macchia di simili orrori? Ma soprattutto come e quanto possono essere rieducate? “Per la legge, la pena per chi uccide volontariamente il proprio figlio è l’ergastolo ma esistono particolari casi in cui l’uccisione del proprio figlio è sanzionata con una pena ridotta. Non si tratta di clemenza ma quando il soggetto che agisce si trova in una precaria condizione psicologica si applicano le attenuanti. La fase del reinserimento sociale è assai varia, come del resto le fasi precedenti, a seconda del caso clinico. Non è raro nella madre che ha ucciso un figlio assistere a meccanismi psicologici di riparazione, che si esplicano nel desiderio di avere un altro figlio da accudire con grande affetto (vedi la Franzoni), la volontà di riparare può essere un segnale terapeutico di adattamento alla penosa situazione passata. Nella fase di reinserimento sociale i membri della famiglia, soprattutto coloro che durante la fase processuale si sono mostrati attenti, partecipanti e collaborativi, possono mutare atteggiamento e diventare diffidenti, sospettosi e ostili verso la madre che ha ucciso il figlio. In questo senso possono presentare difficoltà a riaccettare la donna nella propria casa. Inoltre è da sottolineare come nel momento del reinserimento sociale si possano verificare, soprattutto in madri che avevano già precedenti psichiatrici, degli scompensi di tipo psicotico, cioè aggravamenti acuti della sintomatologia psicotica, che necessitano di essere attentamente valutati e oggetto di continuo monitoraggio da parte degli operatori della salute mentale che seguono terapeuticamente la paziente. Naturalmente tutte le personalità non sono uguali, quindi potremmo trovarci di fronte a delle persone che affrontano il percorso di rieducazione e riescono a superare la situazione psicologica che le aveva portate ad uccidere, come potremmo trovarci di fronte a persone che potrebbero ricommettere il gesto. Ogni caso va valutato attentamente e analizzato. Vicende aberranti che vedono come protagonista proprio chi ha dato la vita alle piccole vite spezzate sul nascere, dimostrando come anche la figura più angelica per un figlio possa purtroppo diventare il suo stesso carnefice”. Madri che diventano carnefici dei loro stessi figli ma anche madri che danno la vita per salvare quella di chi hanno messo al mondo. Come è successo a giugno, a una donna di 51 anni morta sulle Spiagge Bianche di Vada (Livorno), dopo essersi buttata in mare nel tentativo di salvare il figlio che stava annegando. La vittima era una turista tedesca di 51 anni in vacanza con la famiglia. Maria Clara Shermer stava trascorrendo il pomeriggio al mare insieme al marito ef al figlio.

Sempre questa estate un’altra mamma coraggio ha perso la vita correndo tra le fiamme per salvare i figli, morendo abbracciata con i suoi piccoli in casa. Una scena straziante descritta dai primi vigili del fuoco che sono riusciti ad entrare nella casa dopo aver spento il devastante incendio in Argentina. Questa è la storia di Monica Gallardo, una mamma argentina di 35 ani deceduta tra le fiamme della sua casa di Comodoro Rivadavia insieme ai due figli più piccoli i suoi due figli, Alan, 5 anni, e Benjamin di 2 anni.

Nel mese di gennaio si è venuti a conoscenza  di un altro dramma familiare che ha come protagonista sempre una madre coraggio: la madre afghana morta per salvare i figli dall’assideramento. Si è tolta le calze per scaldare le mani dei bambini. Arrivare in Europa a piedi nudi.

Freud (2009) vede nella madre la prima soccorritrice, colei che accoglie le prime urla del bambino; la madre è dunque accoglienza pura. Recalcati fa coincidere simbolicamente la funzione materna all’immagine delle mani che sostengo, accolgono e si prendono cura dei primi anni dell’esistenza, che abbracciano la vita, successivamente riconosciuta dal padre.

L’abbiamo vista distesa nella neve, con gli abiti pesanti e i piedi nudi, gonfi, avvolti in buste di plastica. Da Twitter la foto è passata sui giornali, brevemente e senza un nome: la giovane donna afghana che stava attraversando il confine tra Iran e Turchia a piedi con i suoi figli, è morta di freddo. Oppure quanto è successo nella provincia cinese di Hubei, nel 2015, dove una donna di 30 anni è stata inghiottita dalla scala mobile per salvare il figlio. Giunti all’estremità superiore della scala mobile, il pannello è letteralmente scomparso sotto i piedi della donna, che ha prontamente afferrato il suo bambino consegnandolo nelle mani di un commesso del negozio. Ma il meccanismo non si è arrestato, e la donna è stata inghiottita nonostante il tentativo del personale di afferrarla. Ci sono volute quattro ore perché i vigili del fuoco riuscissero a raggiungere la donna, apparentemente ancora viva. Ma Xiang è deceduta poco dopo. Storie diverse ma con la stessa protagonista: una madre che dà la sua vità per il figlio. 5) Cosa spinge, precisamente cosa scatta nella mente di una madre nel mettere da parte la sua stessa vita per salvare quella di un figlio? “L’amore di una madre per i propri figli varca ogni confine, arriva il timore, nasce il senso di responsabilità e si genera quel sentimento di appartenenza. Quando nasce un figlio si crea un legame particolare che durerà per tutta la vita. Anche se vengono separati o vivono lontani, la mamma e i figli saranno sempre uniti da un filo invisibile. Questo è il legame più forte che esiste in natura. L’istinto di protezione di una madre nasce nel momento in cui scopre di essere incinta. Una mamma è tale per la vita, una mamma per i suoi figli sarebbe disposta a rinunciare alla sua stessa vita senza pensarci nemmeno per un istante, una mamma per un figlio è la più forte e determinata delle leonesse, una gioia o un dolore di un figlio sono anche sue, anche le cose più banali diventano importanti. Ci sono figli la cui vita scorre velocemente, diventano presto grandi, si avviano lungo loro strada; la mamma non li perderà mai di vista, li osserverà con attenzione, anche senza farsi notare, pronta a raccoglierli e supportarli, anche quando le sue forze saranno venute meno. Per i suoi figli, una mamma troverà sempre la giusta forza o il giusto sorriso. Ci sono però figli che hanno oggi, ed avranno domani, molto più bisogno, rispetto agli altri, della presenza fisica di una mamma”.

6) Come vivranno i figli nel sapere che chi gli ha dato la vita l’ha sacrificata per salvaglierla? Quali sono i traumi e le ferite? Ma soprattutto sono ferite destinate a sanguinare sine die o vi è la probabilità che si rimarginino nel tempo e col tempo?

“A causa del lutto nel bambino si infrange il presupposto fondamentale per lo sviluppo di un attaccamento sicuro, la presenza costante del genitore. Questo ha un importante impatto sullo sviluppo del senso di sicurezza personale poiché il bambino non ha ancora stabilito un senso di sé autonomo e indipendente dalla protezione del genitore. Non è semplice stabilire il confine tra il dolore normale e quello traumatico in quanto questi due processi sono connessi tra loro. Quello che li differenzia dipende da diverse circostanze interne ed esterne. I bambini provano sentimenti molto intensi e non progressivi, cioè non seguono delle fasi come gli adulti. Questo per il diverso sviluppo cognitivo e per la presenza di maggiori meccanismi di difesa che portano il bambino a staccarsi più velocemente per non soffrire troppo. I sentimenti più comuni comprendono tristezza, ansia (manifestata con comportamenti iperattivi, inquieti o aggressivi), colpa, rabbia, vulnerabilità e insicurezza, isolamento, problemi della condotta, disturbi del sonno, dell’attenzione, di concentrazione, regressione, sintomi psicosomatici. Non sottovalutare il dolore del bambino che per quanto possa essere manifestato in maniera differente dall’adulto è forte a va sostenuto.

L’età del bambino incide sul livello di comprensione della morte, pertanto anche le reazioni potranno essere differenti. Gli effetti più disturbanti in queste situazioni sono dati dalla sensazione di non capire cosa stia succedendo. Questo crea molta confusione e insicurezza nel bambino, che tenterà di gestire attraverso delle personali interpretazioni ovviamente disfunzionali rispetto alla realtà. I timori inizialmente riguardano di solito il pensiero di aver causato l’evento, che la stessa cosa possa capitare a lui o alla mamma/papà, e soprattutto il pensiero di chi si occuperà di lui. I bambini dovranno essere sostenuti e accompagnati giorno per giorno nel percorso di accettazione ed elaborazione della realtà dolorosa e ciò può realizzarsi solo all’interno di un rapporto affettivo fatto di fiducia, dialogo e condivisione sia all’interno della famiglia che in ambito sociale.

La qualità, l’intensità e la durata delle reazioni che i bambini possono presentare, sono collegate non solo all’evento “morte” in sé, ma alla complessità della situazione vissuta dal bambino prima e dopo la scomparsa della persona amata. In un ambiente favorevole, che si prende cura del bambino, la morte del genitore non porta necessariamente a gravi difficoltà e ad un arresto dello sviluppo. I bambini infatti mostrano una certa forza e resistenza nel lottare contro le difficoltà e le tragedie della propria vita e bisogna aver fiducia nelle loro possibilità di partecipazione e recupero, nel loro coraggio e creatività e perfino nel loro realismo e senso pratico. È un lavoro mentale lungo in cui cerchiamo di capire bene, anche emotivamente, che cosa ci è capitato, cosa abbiamo perduto, quali aspetti di noi non potranno più realizzarsi e quali dovranno modificarsi; quali prospettive si chiudono e quali rimangono o si aprono. La mancata elaborazione del lutto, invece, comporta malessere psichico duraturo e ha conseguenze pesanti sulla salute mentale del soggetto e dei suoi discendenti, figli e nipoti, come risulta dalla ricerca e dalle psicoterapie. Favorire l’elaborazione del lutto è fare prevenzione primaria.”

7) Come vivranno invece i familiari e i compagni o mariti di queste donne coraggio? E quanto questo inciderà nel rapporto padre e figlio nonché nel rapporto di quest’ultimo con gli amici e parenti della madre?Come vivranno invece i familiari ed i compagni o mariti di queste donne coraggio? E quanto questo inciderà nel rapporto padre e figlio nonché nel rapporto di quest’ultimo con gli amici e parenti della madre? “Nei familiari rimarrà un vuoto incolmabile, un abisso, un dolore atroce. Le reazioni alla perdita non sono mai tutte uguali, dipendono dalla struttura di personalità di chi rimane, dall’intensità o conflittualità del legame, dalle compensazioni e scompensi del cuore. Il partner che rimane in vita non elabora il dolore, anzi lo concima, lo nutre in modo che non passi. Esattamente come Penelope cuce di giorno e scuce di notte per far sì che tutto rimanga immobile ed identico. Il partner in lutto si sente distante dal mondo, scollato dalla realtà, solo. È assorbito dal dolore, non ha energie per nulla e, spesso, vuole stare abbracciato al suo dolore. Aspetta il momento propizio per elaborare il lutto. L’elaborazione del lutto è un cammino necessario ed assolutamente soggettivo che deve essere intrapreso per evitare che si instauri un pericolosissimo circuito di isolamento fatto di paura alternata alla rabbia per il danno subito, nutrito da ostilità e angoscia. Sentimenti che rendono impossibile ricominciare a vivere. I figli corrono il rischio di venire schiacciati dall’onda anomala di un dolore così grande: il loro e quello del genitore rimasto. Talvolta sono costretti a prendere il posto della madre che manca, a scapito della loro vita, mettendo in atto delle situazioni altamente disfunzionali. La colpa per non essere riusciti ad essere presenti alla tragedia, non aver potuto aiutare, rimarrà sempre dentro di loro e questo molte volte li porterà ad essere iperprotettivi con il figlio scampato alla tragedia.”

Madri carnefici e madri coraggio, donne che dimostrano come la maternità possa degenerare tanto nel baratro quanto all’eroismo.

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